La composizione del microbioma intestinale dei pazienti può condizionare la risposta all’immunoterapia, e la presenza di alcuni batteri potrebbe consentire di ottenere risposte nei casi di resistenza primaria.
Bertrand Routy, Emmanuelle Le Chatelier, Lisa Derosa et al. Gut microbiome influences efficacy of PD-1–based immunotherapy against epithelial tumors. Science. November 2, 2017. DOI: 10.1126/science.aan3706
E’ ben noto che la composizione del microbioma intestinale può influenzare numerosi processi dell’ospite, tra cui il metabolismo, l’infiammazione, le risposte immunitarie, nonché condizionare, mediante la produzione di tossine e metaboliti, lo sviluppo e la prognosi di alcuni tumori [Zitvogel, Nat Rev Microbiol 2017 Aug;15(8):465-478].
I recenti progressi ottenuti con l’immunoterapia in numerosi tipi di tumore fanno i conti, in una certa percentuale di casi, con la cosiddetta “resistenza primaria”: vale a dire, in alcuni pazienti il trattamento con il farmaco immune checkpoint inhibitor non ottiene l’auspicato controllo di malattia. Molti gruppi di ricerca si stanno concentrando sui meccanismi responsabili di tale resistenza, in quanto la comprensione dei meccanismi che ne sono alla base aumenterebbe il numero di pazienti che si beneficiano dell’immunoterapia, se si potessero mettere a punto strategie efficaci per contrastare le resistenze.
In tale scenario, si inserisce l’interessante articolo di Bertrand Routy e colleghi, tra cui l'italiana Lisa Derosa, pubblicato sulle prestigiose pagine di Science.
Gli autori hanno innanzitutto valutato l’associazione tra l’impiego di terapia antibiotica ed efficacia dell’immunoterapia in una serie di pazienti con varie neoplasie solide, trattati con anti-PD1 o anti-PDL1 dopo il fallimento di una o più precedenti linee di terapia.
Il lavoro descrive anche le differenze nella composizione delle feci dei soggetti rispondenti e dei soggetti non rispondenti.
Infine, sono presentati esperimenti di laboratorio, in modelli murini, che hanno valutato l’effetto del “trapianto di feci” e della colonizzazione con specifici batteri sull’efficacia della terapia antitumorale con immune checkpoint inhibitors.
La casistica di pazienti inseriti nell’analisi comprendeva 140 pazienti con tumore del polmone NSCLC, 67 pazienti con tumore renale a cellule chiare, 42 pazienti con carcinoma uroteliale. Sul totale di 249 pazienti, 69 (pari al 28%) hanno ricevuto una prescrizione di antibiotici (beta-lattamici, fluorochinoloni o macrolidi) nei 2 mesi precedenti o entro i 30 giorni successivi alla prima somministrazione del farmaco immunoterapico, nella maggior parte dei casi per infezioni dentarie, o delle vie urinarie, o infezioni polmonari. Non c’erano differenze significative tra il gruppo di pazienti che aveva preso antibiotici e gli altri pazienti, per le principali caratteristiche prognostiche.
Sia la sopravvivenza libera da progressione che la sopravvivenza globale sono risultate significativamente peggiori nel gruppo che aveva ricevuto terapia antibiotica. Anche l’analisi multivariata evidenzia un ruolo prognostico indipendente della terapia antibiotica, rispetto agli altri fattori prognostici noti, sia nel tumore del polmone che nel tumore del rene.
Sulla base dei suddetti risultati, gli autori hanno ipotizzato che l’alterazione del microbioma intestinale possa mediare l’effetto negativo della terapia antibiotica sull’attività e l’efficacia dell’immunoterapia. Hanno quindi analizzato la composizione delle feci di 100 soggetti (60 con tumore del polmone e 40 con tumore del rene), prima dell’inizio della terapia e con prelievi seriali successivi. La composizione della flora batterica è risultata diversa tra rispondenti all’immunoterapia e non rispondenti: un batterio in particolare, Akkermansia muciniphila, è risultato molto più presente nelle feci dei rispondenti rispetto ai non rispondenti.
L’articolo descrive anche interessanti esperimenti di laboratorio basati su “topi avatar” trattati con antibiotici o “germ-free”, sottoposti a “trapianto di feci” prelevate da pazienti, sia rispondenti che non rispondenti all’immunoterapia: i topi subivano poi l’inoculazione di cellule tumorali e venivano trattati con i farmaci immunoterapici. La risposta all’immunoterapia è risultata migliore nei topi “trapiantati” con feci di pazienti che avevano risposto al trattamento. In particolare, la sensibilità all’immunoterapia può essere ottenuta, nel modello murino, colonizzando l’intestino del topo con il batterio Akkermansia muciniphila.
Sulla base dei risultati descritti, gli autori concludono che il microbioma intestinale dimostra, nel modello sperimentale, di esercitare una marcata influenza sull’attività dei farmaci immunoterapici anti-PD1.
Naturalmente, i punti da chiarire sono numerosi. Innanzitutto, non è chiaro come si esplichi l’azione immunomodulatrice del batterio A. muciniphila, che è uno dei batteri più abbondanti nel microbioma ileale. Intrigante l’ipotesi che questi batteri possano rinforzare l’integrità della barriera intestinale, riducendo l’infiammazione sistemica che potrebbe essere provocata, nei pazienti oncologici, da un’alterazione della barriera intestinale causata dallo stress con conseguente endotossiemia. In accordo a questa ipotesi ,alcuni batteri “buoni”, come l’A. muciniphila, alcuni Clostridiales e Ruminococcaceae potrebbero favorire un microambiente “omoestatico”, in grado di prevenire una patologica immunosoppressione.
Inoltre, la risposta immunitaria scatenata dagli agenti anti-PD1 potrebbe attivare una risposta contro il medesimo batterio A. muciniphila, potenzialmente migliorando lo stato di “immunosorveglianza” nei confronti delle cellule tumorali da parte del sistema immunitario dell’ospite.
L’aspetto interessante del lavoro è che suggerisce non solo un possibile meccanismo di resistenza, ma lascia intravedere possibilità di intervento terapeutico, mediante modificazione del microbioma intestinale. Insomma, il nostro tentativo di migliorare l’efficacia dell’immunoterapia potrebbe essere… nelle feci, e non è una battuta!