L'utilizzo degli accessi venosi impiantabili è routinario nei pazienti oncologici. Tra le possibili complicanze vi sono i difetti meccanici, le trombosi e le infezioni. ma quanto sono sicuri questi dispositivi nella pratica clinica? Uno studio prospettico francese risponde al quesito.
Voog E, et al. Totally implantable venous access ports: a prospective long-term study of early and late complications in adult patients with cancer. Supp Care Cancer 2017, epub Jul 29.
Da almeno quindici anni, l'uso dei dispositivi impiantabili è frequente nella pratica clinica, quando il paziente oncologico problematiche di accesso venoso, quando si voglia preservare il patrimonio venoso o quando si prevedano somministrazioni ripetute per un lungo periodo.
Sono ad esempio frequenti gli impianti di IAP (infuse-a-port), dispositivi biotecnologici che permettono di avere un accesso venoso permanente in vene di buon calibro, per assicurare infusioni di antiblastici vescicanti o utricanti, terapie in infusione continua o ance supporti nutrizionali. In casi specifici, port bicamerali possono essere anche utilizzati per somministrazioni multiple e i power-port per infusione di sostanze o mezzi di contrasto ad alta portata.
E' noto le complicanze legate all'uso di dispositivi impiantabili possano essere di tipo meccanico, di tipo trombotico e/o di tipo infettivo, documentate in letteratura nel 5-10% dei casi, ma le casistiche (spesso retrospettive) sono state per lo più focalizzate su uno solo tra questi aspetti. Gli autori francesi propongono uno studio prospettico nel quale descrivono complicanze acute e tardive di pazienti monitorati per almeno 12 mesi (l'arruolamento in studio era nel 2016). Gli endpoint del report sono prevalentemente di tipo descrittivo.
Sono stati seguiti 483 pazienti ai quali sono stati posizionati 493 dispositivi impiantabili, follow-upmediano di 18 mesi, equivalente a 367.000 giorni globali con dispositivo.
Sono stati registrati 87 eventi (18% dei pazienti; 17.5% dei dispositivi): 37 casi di infezione (soprattutto staffilococcica); 17 eventi trombotici; 9 casi di stravaso, altri eventi erano imputabili a danni meccanici.
Oltre il 70% degli eventi avveniva nei primi 12 mesi dall'impianto del dispositivo; il tempo mediano all'evento trombotico era di poco inferiore ai 5 mesi.
Si assisteva alla rimozione del dispositivo in 149 casi, ma nel 72% la motivazione era il termine del trattamento.
L'evento decesso entro un mese dalla complicazione del catetere impiantabile era registrato in 10 pazienti (11%), ma solo in 3 di questi casi (3.5%) la morte era attribuita alle conseguenze dirette della complicazione.
Con i limiti di una analisi condotta in un solo centro (sebbene ad alto volume), l'impressione è di avere a disposizione un presidio impiantabile moderno, efficiente, ben accettato dai pazienti e sicuro nel tempo.
L'analisi presentata, tuttavia, non tiene in conto l'expertise del professionista che effettua il posizionamento del catetere impiantabile (è noto dalla letteratura il tasso di complicazioni sia maggiore nella curva di apprendimento) e quella del team infermieristico che istruisce il paziente mighliorandone la compliance e si occupa alla manutenzione, limitando l'insorgenza di possibili complicazioni. A questo proposito, una recente esperienza italiana (Solinas C, et al. J Vasc Access 2017) non riporta un aumento del rischio di occlusione del lume se il lavaggio è effettuato con sola soluzione salina a cadenza trimestrale. Inoltre, il PORT sembra essere preferito dai pazienti vs PICC o cateteri venosi centrali esterni non tunnellizzati (Fang S, et al. Patient Prefer Adherence 2017)