Uno studio fa il punto sugli accessi ai dipartimenti di emergenza di pazienti oncologici nell'ultimo mese di vita. Ma quale è il confine tra un intervento futile e una reale motivazione clinica di tali scelte? Ancora pochi gli studi che affrontano il tema, ancora acerba la discussione.
Il verificarsi di accessi multipli a un dipartimento di terapia intensiva nell'ultimo mese di vita è un indicatore riconosciuto di accanimento terapeutico.
La prevalenza di tale fenomeno costituisce un marcatore potenziale di scarsa qualità.
Inoltre, non vi è alcuna evidenza scientifica che le cure aggressive (intensive) nel fine vita migliorino la sopravvivenza.
Viceversa, possono essere causa di:
Disegno dello studio: revisione sistematica e metanalisi al fine di esplorare i fattori associati con gli accessi a una struttura di terapia intensiva nell'ultimo mese di vita di pazienti oncologici.
L'associazione tra fattore e probabilità di accesso alla struttura di terapia intensiva è stata espressa in termini di odds ratio (OR), con rispettivo intervallo di confidenza al 95%.
L'eterogeneità è stata valutata mediante l'I2. Per gli studi nei quali una significativa eterogeneità è stata identificata (I2 > 50%), la metanalisi è stata rifatta escludendo uno studio per volta, al fine di valutare il singolo contributo degli studi nel determinare la stessa.
Sono stati analizzati 30 studi che riportavano informazioni su 3 fattori demografici, 5 fattori clinici e 13 fattori ambientali, combinando i dati di 5 Paesi, relativi a più di un milione di pazienti (N=1.181.842).
Una maggiore probabilità di accesso a un dipartimento di emergenza è stata osservata per le seguenti categorie:
Viceversa, gli accessi sono risultati meno probabili per i pazienti già coinvolti in un programma di cure palliative (OR 0.43; 95% IC, 0.36-0.51; I2, 59.4%).
Nell'ultimo mese di vita, la probabilità di accesso ad una struttura di terapia intensiva aumenta in presenza di una delle seguenti variabili:
Questi risultati possono essere tradotti in pratica clinica? La risposta, verosimilmente, è sì. Come?
Favorendo campagne di informazione rivolte principalmente alle categorie a rischio (laddove i fattori che le caratterizzano sono inevitabili: sesso, razza, patologia, stato socioeconomico) e incoraggiando i percorsi di cure palliative.
Lo studio ha inoltre riportato che la proporzione di pazienti con più di un accesso in terapia intensiva nell'ultimo mese di vita è risultata significativamente più alta fra coloro che avevano continuato la chemioterapia nei due mesi precedenti il decesso rispetto a coloro che l'avevano interrotta almeno tre mesi prima (p = 0.002).
Il legame tra le due osservazioni (accessi in terapia intensiva e terapia oncologica attiva nel fine vita) è consistente con l'attribuzione di indice di scarsa qualità clinica a entrambi i fenomeni.
La ricerca clinica nel fine vita deve esplorare, senza timori, il confine tra efficacia e futilità. In assenza di conoscenza, qualunque decisione rimane aleatorie.