Un giorno passato tristemente alla storia. Il 6 agosto 1945 il bombardamento atomico sul Giappone segna la fine della seconda guerra mondiale e l'inizio dell'era nucleare. Uno studio propsettico di coorte con un follow-up di oltre 60 anni analizza il rischio di morte per tumore nei figli dei sopravvissuti all'esposizione radioattiva.
Grant EJ, et al. Risk of death among children of atomic bomb survivors after 62 years of follow-up: a cohort study. Lancet Oncol 2015, epub Sept 15th.
Nel 1945 il presidente americano Truman ordina il bombardamento atomico sul Giappone. Il 6 agosto Enola Gay sgancia il primo ordigno su Hiroshima. Tre giorni dopo è la volta di Nagasaki. Ai gravissimi effetti termici e radioattivi immediati (80.000 morti, 40.000 feriti, 13.000 dispersi) si aggiunsero negli anni successivi gli effetti delle radiazioni, che portarono le vittime a quota 250.000. Con la resa nipponica e la fine della seconda guerra mondiale, questa tragica pagina di storia avvia la paura delle radiazioni nucleari.
La preoccupazione sui potenziali effetti a lungo ternine dell'esposizione alle radiazioni fa nascere uno studio prospettico di coorte (F1 mortality cohort study) che raccoglie nel tempo dati sanitari relativi alla prima generazione filiale della popolazione sopravvissuta all'esposizione.
Lo studio prospettico di coorte recentemente pubblicato su Lancet Oncology riporta i dati relativi al rischio di morte per tumore o per altra causa (endpoint primario dello studio) in oltre 75.000 figli singoli nati tra il 1946 e il 1984 e seguiti a follow-up fino al 2010. Il livello di esposizione parentale alle radiazioni è stato valutato con un sistema dosimetrico corretto per la distanza chilometrica dall'ipocentro dell'esposione, le condizioni di protezione e l'età al momento dell'evento.
Le analisi statistiche sono state condotte ipotizzando un rischio più alto al cresecere dell'esposizione radiante dei genitori e considerando l'outcome in base a livelli crescenti di esposizione gonadica parentale misurati in categorie (0, 1-49, 50-149, 150-499, 500 o oltre mGy) o in scala continua (0-1 Gy). I modelli hanno stimato gli HR di morte con intervalli di confidenza del 95% usando proportional hazard models.
Lo studio viene pubblicato con un follow-up mediano della coorte durato quasi 55 anni.
La dose mediana di esposizione radiante parentale (quando presente) è stata di 264 mGy.
Per esposizione radiante materna non si è registrata una differenza nel rischio di morte dei figli nè per malattia oncologica (HR 0.89, 95%CI 0.69-1.14, p=0.36) nè per malattia non oncologica (HR 0.97, 95%CI 0.85-1.15, p=0.69).
Dati molto simili sono riportati nello studio qualora l'esposizione alle radiazioni fosse stata paterna.
Inoltre, i dati erano indipendenti dall'età parentale all'esposizione e dal tempo trascorso tra esposizione e gravidanza.
Come correttamente riportano gli autori, potenziali bias dello studio sono i fenomeni di migrazioni, lo stile di vita dei soggetti componenti la coorte, ed il fatto che non tutti i figli dei sopravvissuti all'evento atomico delle due aree geografiche sono stati inclusi nello studio.
Ad oggi, i dati disponibili sembrano rassicuranti: non si è registrato un incremento di mortalità per cancro nei figli dei sopravvissuti alle esplosioni nucleari.
Tuttavia, questo studio non esclude vi possano essere effetti delle radiazioni in questa coorte di soggetti: come giustamente commenta nell'editoriale di accompagnamento David Brenner della Columbia University, "absence of evidence is not evidence of absence".
L'attenzione per le mutazioni indotte (genetiche e somatiche) e per i potenziali effetti a lungo termine delle radiazioni deve quini continuare: non dimentichiamo che la dose oraria di radiazioni assorbite nel'area di Chernobyl nel 2010 (25 anni dopo il disasto) era ancora di 6mSievert e la dose media assorbita da un italiano è stata misurata in 1.5 mSv.