Dal momento che i trattamenti adiuvanti espongono il paziente a un rischio di tossicità, è cruciale discutere la dimensione del beneficio mediamente atteso. La scelta di fare terapia non è scontata, e non tutti i pazienti la pensano alla stessa maniera…
P Blinman, I D Davis, A Martin, S Troon, S Sengupta, E Hovey, X Coskinas, R Kaplan, A Ritchie, A Meade, T Eisen, M R Stockler; Patients' preferences for adjuvant sorafenib after resection of renal cell carcinoma in the SORCE trial: what makes it worthwhile?, Annals of Oncology, , mdx715, https://doi.org/10.1093/annonc/mdx715
Dal momento che i trattamenti antitumorali sono associati ad effetti collaterali di varia durata e intensità, la decisione relativa all’eventuale terapia precauzionale da intraprendere allo scopo di ridurre il rischio di recidiva dopo l’intervento chirurgico deve necessariamente basarsi su un’attenta discussione con il paziente relativa ai benefici e ai rischi attesi.
Nella maggior parte delle neoplasie solide per le quali il trattamento adiuvante è di provata efficacia, la sua somministrazione si associa ad un aumento di alcuni punti percentuali della chance di sopravvivenza: alcuni pazienti sarebbero guariti comunque, anche senza il trattamento adiuvante, e altri pazienti andranno purtroppo incontro a recidiva di malattia nonostante il trattamento. Per questi motivi, alcuni pazienti sarebbero disposti ad accettare gli effetti collaterali della terapia in cambio di un miglioramento della prognosi anche minimo, mentre altri rifiuterebbero la terapia se il vantaggio atteso si rivelasse di piccola entità.
Allo scopo di valutare il punto di vista dei pazienti sul beneficio minimo necessario per accettare di sottoporsi ad un trattamento adiuvante, gli autori della recente pubblicazione su Annals of Oncology hanno condotto uno studio sui pazienti con neoplasia renale inseriti nello studio di terapia adiuvante SORCE.
Lo studio prevedeva la randomizzazione di pazienti operati radicalmente per tumore renale a alto o intermedio rischio di recidiva, a un braccio di controllo con 3 anni di placebo, oppure al braccio sperimentale con 1 anno di sorafenib seguito da 2 anni di placebo, oppure al braccio sperimentale con 3 anni di sorafenib.
L’analisi è stata condotta sui pazienti dei centri australiani e neozelandesi, e di una parte dei centri britannici.
I pazienti inclusi nell’analisi completavano un questionario sulle preferenze relative al trattamento, sia prima della randomizzazione, sia a vari intervalli successivi (a 3 mesi, a 15 mesi, a 42 mesi).
Obiettivo dell’analisi era la descrizione delle preferenze dei pazienti in termini di beneficio minimo giudicato necessario per “sopportare” 1 anno di trattamento adiuvante con sorafenib (rispetto alla sola osservazione), e per “sopportare” 3 anni di trattamento adiuvante con sorafenib (rispetto ad 1 anno).
Il beneficio in termini di efficacia era espresso in termini di incremento assoluto rispetto a un’aspettativa di vita di 5 anni o di 15 anni, nonché in termini di incremento percentuale della chance di sopravvivenza a 5 anni, rispetto a una chance attesa del 65% o dell’85%.
Lo studio ha visto la partecipazione di 233 pazienti, con un’età mediana pari a 57 anni (range compreso tra 29 e 78 anni). Il 71% dei partecipanti era di sesso maschile.
Nel caso in cui si prospettava una terapia adiuvante con 1 anno di sorafenib, rispetto alla sola osservazione, il beneficio mediano in termini di sopravvivenza giudicato necessario per accettare la terapia è risultato pari a 9 mesi in aggiunta all’aspettativa di 5 anni, o a 1 anno in aggiunta all’aspettativa di 15 anni; il beneficio mediano in termini di chance di sopravvivenza a 5 anni necessario per accettare la terapia è risultato pari a un ulteriore 4% rispetto all’aspettativa del 65%, e pari a un ulteriore 3% rispetto all’aspettativa dell’85%.
Nel caso in cui si prospettava una terapia adiuvante con 3 anni di sorafenib, rispetto alla durata di 1 anno, il beneficio mediano in termini di sopravvivenza giudicato necessario per accettare la terapia è risultato pari a 12 mesi sia in aggiunta all’aspettativa di 5 anni che in aggiunta all’aspettativa di 15 anni.
Quando i pazienti erano chiamati ad esprimere il beneficio minimo necessario per accettare la terapia in momenti successivi alla randomizzazione, i pazienti assegnati effettivamente al trattamento con sorafenib (e che quindi stavano facendo esperienza degli effetti collaterali) “pretendevano” mediamente benefici maggiori rispetto ai pazienti assegnati dalla randomizzazione al placebo.
L’analisi di Blinman e colleghi è interessante perché enfatizza il concetto del “trade off” tra tossicità ed efficacia, punto cruciale di ciascuna decisione terapeutica, nonché aspetto particolarmente delicato quando la decisione riguarda un trattamento adiuvante.
Lo studio era condotto in pazienti con neoplasia renale (un setting per il quale nella pratica clinica il trattamento adiuvante non è standard), ed essendo condotto nell’ambito di una specifica sperimentazione clinica (lo studio SORCE), riguarda pazienti randomizzati a ricevere sorafenib oppure placebo.
Peraltro, il risultato dell’analisi si presta ad alcune considerazioni generali, applicabili anche ad altri setting: quando i pazienti sono chiamati a decidere se iniziare la terapia, quindi non hanno ancora avuto esperienza diretta degli effetti collaterali del trattamento, mediamente accettano il trattamento adiuvante “in cambio” di un vantaggio in sopravvivenza non piccolo (3-4 punti percentuali di incremento della sopravvivenza a 5 anni). Gli autori sottolineano, peraltro, che la distribuzione delle risposte è molto eterogenea, e a fronte di alcuni pazienti che “si accontentano” di benefici molto piccoli, ci sono altri che “pretendono” un vantaggio nettamente maggiore.
Come prevedibile, inoltre, l’esperienza degli effetti collaterali fa “alzare l’asticella” del beneficio minimo “preteso” per sopportare la tossicità.
Questi risultati si aggiungono alla letteratura di studi condotti in setting simili (ad esempio nelle pazienti candidate a trattamento adiuvante per il tumore della mammella), e ci ricordano che la comunicazione relativa ai rischi e ai benefici del trattamento è cruciale per consentire al paziente una decisione serena e consapevole.
Non esiste “IL” beneficio clinicamente rilevante, in quanto il medesimo vantaggio che porta un paziente a pensare che sicuramente valga la pena affrontare alcune tossicità, sarà invece giudicato troppo piccolo da un altro.
La decisione finale, insomma, spetta al paziente.