In questo ultimo tweet dell'anno - immersi in un inconsueto clima natalizio incastrato in un'epoca di pandemia -, prendiamo spunto da una lettera recentemente apparsa su Annals of Oncology per una semplice (e mai scontata) riflessione sul valore dell'empatia nella cura dei nostri pazienti.
La lettera è scritta da un medico cardiologo che in veste di caregiver ha accompagnato per 18 mesi il proprio amico, paziente oncologico, a numerosi consulti, visite di rivalutazione e accessi ospedalieri per trattamenti specifici in strutture di diversa dimensione.
In questo articolato percorso, prima diagnostico e poi terapeutico, la posizione di ascoltatore seduto accanto al malato si è sostituita a quella usuale del professionista sanitario, di norma accomodato dall'altro lato della scrivania, quello dove si sta più al sicuro e si gode del vantaggio di una certa asimmetria informativa e di una posizione tecnicamente privilegiata. Ma proprio questo nuovo assetto ha permesso all'autore della lettera di guardare gli avvenimenti da un differente punto di vista.
Ad ogni visita, il caregiver si accorgeva che il paziente andava sviluppando una vasta gamma di emozioni che coprivano un' ampia estensione emotiva. Tali emozioni spaziavano senza un preciso schema, toccando l'ansietà, sconfinando in sentimenti di paura, per poi andare verso le speranze sul futuro e le aspettative (realizzabili o meno). Tuttavia, non tutti i professionisti oncologi tenevano queste emozioni ugualmente in considerazione, e l'atteggiamento di eccessivo distacco provocava alle volte disillusione, senso di abbandono e sfiducia nelle cure prescritte.
Mentre la malattia dell'amico insesorabilmente progrediva, l'autore rimane impressionato dal costo della terapia prescritta - oltre 20.000 euro al mese per un risultato non valutato altrettanto risonante in termini di beneficio clinico. E quindi si chiede [e ci chiede]: ma quanto sarebbe stato il valore di un sorriso? Quale sarebbe il suo rapporto di costo-beneficio se lo potessimo misurare in termini economici? E chi, durante gli anni della laurea in Medicina, ci insegna ad apprezzare questo valore?