Miscellanea
Sabato, 26 Ottobre 2019

Studi di fase 2: fidarsi è bene, non fidarsi è meglio?

A cura di Massimo Di Maio

Il risultato di uno studio di fase II può sovrastimare l’efficacia del trattamento sperimentale. Non a caso, tradizionalmente questi studi erano considerati propedeutici alla dimostrazione di efficacia in fase III. Una recente metanalisi lo conferma.

Liang F, Wu Z, Mo M, Zhou C, Shen J, Wang Z, Zheng Y. Comparison of treatment effect from randomised controlled phase II trials and subsequent phase III trials using identical regimens in the same treatment setting. Eur J Cancer. 2019 Nov;121:19-28. doi: 10.1016/j.ejca.2019.08.006. Epub 2019 Sep 14. PubMed PMID: 31526874.

Nella tradizionale divisione dello sviluppo di un farmaco in fasi, gli studi di fase II rappresentano la valutazione dell’attività del trattamento in un determinato setting. Idealmente, un risultato positivo di uno studio di fase II dovrebbe portare alla conduzione di una sperimentazione clinica di fase III, allo scopo di dimostrare e quantificare il reale beneficio clinico (efficacia terapeutica) per i pazienti.

A differenza degli studi di fase II a braccio singolo (in cui le uniche speculazioni sul confronto con altri trattamenti sono necessariamente basate su confronti indiretti), la conduzione di uno studio di fase II randomizzato consente di avere un confronto con il trattamento standard per quella specifica situazione clinica. Peraltro, il disegno di uno studio di fase II randomizzato è basato necessariamente su una numerosità più piccola rispetto agli studi di fase III, e volutamente, allo scopo di contenere la numerosità, il rischio di errore alfa (risultato falso positivo) è fissato spesso più alto rispetto al tipico 5% delle sperimentazioni di fase III.

Questo vuol dire che bisogna essere molto prudenti nell’interpretare il risultato di uno studio di fase II, specialmente se tale risultato va oltre il classico ruolo “preliminare” alla conduzione di uno studio di fase III e venga usato per eventuali implicazioni regolatorie e decisioni cliniche.
Gli autori della metanalisi recentemente pubblicata da European Journal of Cancer hanno valutato la corrispondenza nella dimensione dell’effetto del trattamento tra gli studi di fase II randomizzati e i successivi studi di fase III, condotti con il medesimo trattamento nel medesimo setting di pazienti.

A tale scopo, hanno eseguito una ricerca in MEDLINE per identificare tutti gli studi randomizzati di fase II pubblicati tra il gennaio 2006 e il dicembre 2015. Partendo da questa lista di studi, gli autori hanno identificato I rispettivi studi di fase III che avessero successivamente testato il medesimo trattamento nel medesimo tipo di tumore. La ricerca è stata eseguita mediante Web of Science, il registro ClinicalTrials.gov e i proceedings dei principali congressi scientifici.

Per ciascuna coppia di studi, gli autori hanno preso in considerazione l’hazard ratio del trattamento sperimentale rispetto al trattamento di controllo, con il rispettivo intervallo di confidenza al 95%, sia per la sopravvivenza globale (Overall survival, OS) sia per la sopravvivenza libera da progressione (Progression-free survival, PFS).

Per ciascuno dei 2 endpoint, gli autori hanno calcolato il rapporto degli Hazard Ratio tra fase II e fase III (ratio of HRs, rHRs): in pratica, l’Hazard Ratio dello studio di fase II diviso l’Hazard Ratio dello studio di fase III. In pratica, una ratio inferiore a 1 indica un risultato dello studio di fase II “migliore” rispetto al successivo studio di fase III, mentre una ratio superiore a 1 indica un risultato dello studio di fase II “peggiore” rispetto al successivo studio di fase III.

Gli autori hanno anche condotto una metanalisi allo scopo di sintetizzare il dato complessivo del rapporto tra l’efficacia dimostrata in fase 2 e l’efficacia dimostrata in fase 3.

Complessivamente, sono stati identificate 57 coppie di studi di fase II e di fase III. Si trattava di studi condotti in vari tipi di tumore: il più rappresentato era il tumore del polmone (21 studi, pari al 36.8%), seguito dal tumore della mammella (6 studi, 10.5%) e da altre neoplasie. Nel 70% dei casi, si trattava di studi condotti con terapie a bersaglio molecolare, e in oltre la metà dei casi endpoint primario della fase II era la sopravvivenza libera da progressione. Nel 75% circa dei casi, lo studio di fase II si era concluso con un risultato positivo, e la motivazione per raccomandare lo studio di fase III era stata l’analisi principale nell’86% dei casi, e un’analisi di sottogruppo nel 14% dei casi.

Rispetto agli studi di fase III, l’effetto del trattamento sperimentale in termini di progression-free survival è risultato, in media, superiore del 26% negli studi di fase II (ratio degli Hazard Ratio 0.74, p < 0.001, intervallo di confidenza al 95% 0.68 – 0.80).

Rispetto agli studi di fase III, l’effetto del trattamento sperimentale in termini di overall survival è risultato, in media, superiore del 27% negli studi di fase II (ratio degli Hazard Ratio 0.73, p < 0.001, intervallo di confidenza al 95% 0.66 – 0.79).

Sul totale dei 57 studi, solo in 15 casi (pari al 26.3%) lo studio di fase III si è concluso con un risultato positivo. Gli autori non hanno identificato variabili predittive della positività dello studio di fase III, ad eccezione della positività del precedente studio di fase II. Infatti, la selezione dei pazienti (all comers verso selezione basata su un biomarker), la presenza di doppio cieco, la motivazione per la conduzione della fase III (risultato principale o analisi di sottogruppo) e l’endpoint primario dello studio non sono risultati significativamente associati alla chance di ottenere un risultato positivo in fase III.

L’analisi degli autori cinesi conferma che gli studi di fase II possono sovrastimare il risultato di un trattamento sperimentale in termini di efficacia. Se gli studi di fase II venissero usati solo come “screening” dei trattamenti attivi e meritevoli di successiva sperimentazione di fase III, questo non sarebbe un problema, in quanto il rischio di falso positivo (e di sovrastima del risultato) sarebbe “parte del gioco”, e l’importante sarebbe mantenere molto basso il rischio di falso negativo, non scartando trattamenti in realtà efficaci e promettenti.

Il problema è che gli studi di fase II sono stati sempre più spesso impiegati per raccomandare un’approvazione accelerata dei trattamenti, e quindi il rischio di sovrastima dell’efficacia può condizionare significativamente le decisioni e gli sviluppi clinici.

La randomizzazione ha il grande vantaggio di offrire un controllo interno allo studio, e quindi aiuta a stimare l’efficacia comparativa rispetto al trattamento standard. Molti autori hanno sottolineato, negli ultimi anni, l’opportunità di randomizzare già in fase II. Peraltro, il risultato della metanalisi ribadisce che, lavorando con numeri di pazienti più piccoli rispetto alla fase III, il risultato di uno studio di fase II è necessariamente non solo meno preciso (nel senso di una maggiore ampiezza dell’intervallo di confidenza) ma anche meno accurato (nel senso di un bias nella stima dell’efficacia, che può essere significativamente sovrastimata). 

La "morale" della storia può sembrare abbastanza retorica, ma una volta ancora questa analisi ci ricorda di ispirarsi alla cautela quando si leggono e si interpretano i risultati di uno studio di fase II.