A quasi tre anni dalla presentazione dei dati all'ESMO 2013, appare la pubblicazione in extenso con un adeguato follow-up. Dopo sorafenib e lenvatinib ecco vemurafenib, inibitore orale di BRAF già approvato nel melanoma: una nuova opzione terapeutica per pazienti con tumore papillifero della tiroide iodioresistente.
Brose MS, et al. Vemurafenib in patients with BRAFV600E-positive metastatic or unresectable papillary thyroid cancer refractory to radioactive iodine: a non-randomised, multicentre, open-label, phase 2 trial. Lancet Onol 2016, July 22, epub ahead of print.
Le neoplasie tiroidee continuano a incrementare in incidenza e sebbene nella maggior parte dei casi siano guaribili, in circa un terzo dei casi divengono refrattarie al trattamento con iodio radioattivo (I-131).
Patologia orfana, il tumore tiroideo, almeno fino a poco tempo fa, quando due TK inibitori hanno rivoluzionato il panorama del trattamento della patologia radioresistente: sorafenib somministrato alla dose di 400 mg bid (Brose MS et al, Lancet 2014) e lenvatinib assunto in singola dose diaria di 24 mg (Schlumberger M, et al. N Engl J Med 2015). Nonostante questi notevoli avanzamenti terapeutici la neoplasia invariabilmente diventa resistente al TKI ed alcuni pazienti manifestano intolleranza alla terapia. Inoltre, dat preclinici suggeriscono si possa sfruttare la biologia: non solo la mutazione di BRAF V600E è presente in quasi il 50% dei tumori papilliferi, ma tale mutazione correla con un andamento maggiormente aggressivo della malattia e con una aumentata radioresistenza.
Da queste premesse muove il disegno dello studio di fase 2, condotto in un numero limitato di centri accademici specializzati, nel quale due coorti di pazienti con PS ECOG 0-1 sono state trattate con vemurafenib alla dose di 960 mg bid. Nella prima coorte sono stati arruolati 26 pazienti naive da terapia sistemica con inibitori multitarget; nella seconda 25 soggeti pretrattati con inibitori di VEGFR. Endpoint primario dello studio era il tasso di risposte (confermato) riportato dagli investigatori nella coorte 1; le analisi sono state pubblicate dopo un follow-up mediano di circa 15 mesi (19 mesi per la coorte 1).
Risultati coorte 1 (26 pazienti naive):
RR 38.5%; controllo di malattia: 96%; durata mediana del trattamento 13 mesi; PFS mediana 19 mesi; OS mediana non raggiunta.
Risultati coorte 2 (25 pazienti pretrattati con TKI):
RR 27.3%; controllo di malattia 95%; durata mediana del trattamento 7 mesi; PFS mediana 9 mesi; OS mediana 14.5 mesi.
Tossicità:
Sia nella coorte 1 che nella coorte 2 due terzi dei pazienti riportavano eventi avversi di grado 3 o 4 (si segnalano insorgenza di tumori squamosi della cute nel 27% dei pazienti in coorte 1 e nel 20% dei pazienti in coorte 2, linfopenia, fatigue e dispnea) e un quarto dei pazienti interrompevano il trattamento a causa di effetti collaterali. Si sono registrate due morti relate ad eventi avversi nella coorte due, ma in nessuna delle due è stato stabilito un correlato al trattamento con vemurafenib.
I dati di attività del vemurafenib in pazienti con patologia tiroidea iodioresistente sono convincenti, anche se il trial ha un sample size limitato. L'impressione è che il trattamento sia più attivo in pazienti non pretrattati con TKI. Rimangono ora da stabilire il timing dello screening per BRAF e la piuù opportuna sequenza di trattamento nei casi con mutazione V600E.