Lo studio CheckMate 459 confronta testa a testa nivolumab vs sorafenib, ma non centra l’endpoint primario di superiorità in sopravvivenza. Nonostante il trial sia formalmente negativo, quali messaggi ne ricaviamo?
Thomas Yau, Joong-Won Park, Richard S Finn, Ann-Lii Cheng, Philippe Mathurin, Julien Edeline, Masatoshi Kudo, James J Harding, Philippe Merle, Olivier Rosmorduc, Lucjan Wyrwicz, Eckart Schott, Su Pin Choo, Robin Kate Kelley, Wolfgang Sieghart, Eric Assenat, Renata Zaucha, Junji Furuse, Ghassan K Abou-Alfa, Anthony B El-Khoueiry, Ignacio Melero, Damir Begic, Gong Chen, Jaclyn Neely, Tami Wisniewski, Marina Tschaika, Bruno Sangro. Nivolumab versus sorafenib in advanced hepatocellular carcinoma (CheckMate 459): a randomised, multicentre, open-label, phase 3 trial. Lancet Oncology, 13 December 2021
E’ noto che la prima linea di trattamento per pazienti con epatocarcinoma avanzato stia cambiando radicalmente grazie all’avvento dell’immunoterapia con agente singolo, combinazione o associazione con antiangiogenici. Tra i cambiamenti futuri ci sarà quindi anche il posizionamento dei TKI che potrebbero essere ritardati in seconda linea.
Lo studio CheckMate 040 – già riportato in un precedente tweet – dimostrava l’attività di nivolumab in pazienti con malattia avanzata, buon PS e dimostrata progressione dopo aver ricevuto un TKI upfront. In questa seconda parte della strategia di studio, gli autori comparano in prima linea nivolumab [240 mg ev ogni due settimane] vs sorafenib [400 mg bid]: un confronto testa a testa tra PD-1 inibitore e agente multitarget orale con endpoint primario la sopravvivenza overall nella popolazione intention-to-treat, mirando ad una ambiziosa riduzione del rischio di morte del 25% anytime [HR 0.74].
Lo studio ha previsto la randomizzazione 1:1 di oltre 700 pazienti con classe A di Child e PS secondo ECOG 0-1 e buona funzionalità d’organo. Tra i fattori di stratificazione ricordiamo la causa dell’epatopatia sottostante, la regione geografica di provenienza e la presenza di invasione vascolare o spread extraepatico, tutti fattori di stratificazione usualmente considerati nei trial di prima linea. Erano anche previsti tra gli endpoint secondari i confronti in qualità di vita con questionari validati e i PROs.
La sopravvivenza mediana riportata dopo circa 28 mesi di osservazione è stata di 16.4 mesi con nivolumab vs 14.7 con sorafenib, HR 0·85 [95%CI 0·72–1·02]; p=0·075; il livello di significatività previsto dal protocollo con p=0·0419 non è stato quindi raggiunto e lo studio risulta formalmente negativo.
In accordo al dato dell’endpoint primario, non si dimostrano nemmeno differenze in termini di PFS tra i due bracci di trattamento.
I due farmaci, come atteso, avevano un differente profilo di tollerabilità.
Gli autori avocano come possibile causa del fallimento dello studio con l’esposizione all’immunoterapia in seconda linea nei pazienti che in prima linea avevano ricevuto sorafenib – suggerendo implicitamente alcune considerazioni per l’individuazione di una sequenza terapeutica.
La sola immunoterapia potrebbe quindi trovare uno spazio per pazienti con una iniziale controindicazione a TKI o a trattamento con farmaci antiangiogenici.
Alcune brevi considerazioni sullo studio.
Per prima cosa permane il problema di individuare i candidati alle migliori terapie oggi proponibili: sia nel CheckMate 459 che nell’IMbrave 150 oltre un terzo dei pazienti screenati non sono stati inclusi nello studio. Certamente si auspica una rapida introduzione delle nuove terapie nella pratica clinica per poter offrire i vantaggi della ricerca ad un maggior numero di pazienti.
In secondo luogo, il valore predittivo/prognostico del marcatore PD-L1 rimane dubbio: sebbene nei pazienti randomizzati a ricevere nivolumab il tasso di risposta fosse più che doppio in chi aveva espressione di PD-L1 >1% vs in chi avesse espressione inferiore a 1 [RR 28% vs 12%], non vi era differenza in termini di OS mediana. Non è chiaro se questi dati possano essere almeno in parte giustificati da un differente pattern di progressione e di estensione della sopravvivenza post-PD.
Un terzo punto di riflessione riguarda il miglior endpoint proponibile nei nuovi studi in cui molti pazienti dopo il fallimento della prima linea terapeutica progressione ricevono altri farmaci non cross-resistenti tanto che si disegna la necessità di chiarire una sequenza terapeutica. Sebbene la PFS non sia stata validata come un forte endpoint surrogato in questa patologia, molteplici evidenze suggeriscono possa essere ora considerato. Riportiamo a questo proposito anche l’esito preliminare del trial COSMIC-312 [Cabozantinib plus atezolizumab versus sorafenib as first-line systemic treatment for advanced hepatocellular carcinoma]: sebbene la combinazione innovativa di cabozantinib e atezolizumab utilizzata upfront abbia ottenuto vantaggio in PFS verso il solo sorafenib [HR 0.63, 99%CI 0.44-0.91; p=0.0012, median PFS 6.8 vs 4.2 mesi], non ci sono alla prima analisi differenze in sopravvivenza overall [HR 0.90].
Di certo, in attesa delle conferme dei dati di efficacia della combinazione tra nivolumab e ipilimumab in pazienti non pretrattati, lo spazio terapeutico per il solo nivolumab in questo setting sembra onestamente abbastanza ristretto.