Dati preclinici sembravano suggerire che un inibitore di MEK potesse rilanciare il ruolo del’immunoterapia anche in tumori ad essa poco sensibili, come i carcinomi colorettali MSS. Lo studio Imblaze 370, invece, dimostra esattamente il contrario. Dalla Fortezza Bastiani, non si vede nemmeno un linfocita T.
Eng C, et al. Atezolizumab with or without cobimetinib versus regorafenib in previously treated metastatic colorectal cancer(IMblaze370): a multicentre, open-label, phase 3, randomised, controlled trial. Lancet Oncol 2019 Apr 16th, epub ahead of print
Tra I motivi per I quali è bene richiedere la determinazione dello stato di stabilità microstallitare nei tumori colorettali – che anche l’AIFA dovrebbe riconoscere -, vi è l’innegabile evidenza di attività degli immunoterapici nei tumori con instabilità.
Tuttavia, i pazienti con neoplasia MSI-H, deficitari dei meccanismi di riparo del danno al DNA, rappresentano una quota molto ridotta, pari a circa il 5% dell’intera casistica.
Per tutti gli altri, lo stato dei microsatellite si definisce intermedio o MSI-low [MSS]. In questa popolazione la neoplasia è caratterizzata da un basso carico mutazionale, scarsa rapresentazione di neoantigeni e un modesto infiltrato linfocitario o di cellule effettrici, risultando molto poco sensibile all’immunoterapia.
Si sono quindi studiate vie biologiche per rendere immunogenici anche tumori che di norma non lo sono.
Una di queste nasce dalla conoscenza sulla via di segnale delle MAPKinasi, la quale sembra essere coinvolta nell’immunoregolazione tramite la downregolazione dell’espressione di MHC di classe 1, la upregolazione di citochine con azione immunosoppressiva e la maggiore induzione di antigeni di superficie. Modelli preclinici hanno dimostrato che l’inibizione della pathway delle MAPK - utilizzando un inibitore di MEK - porta all’aumento dell’infiltrato di cellule T e aumenta l’espressione di MHC-1 e PD-L1: questi effetti risultano nella aumentata azione degli immunoterapici.
Lo studio IMblaze 370, un trial multicentrico e internazionale condotto in 11 Paesi, si basa quindi su un solido razionale preclinico e arruola pazienti con carcinoma colorettale e buon Performance Status che hanno precedentemente fallito almeno due line di trattamenti antiblastici con eventualmente antiangiogenici e/o EGFR inibitori.
Si segnala un disegno di fase III con una randomizzazione 2:1:1 tra la combinazione di cobimetinib [MEK-inibitore] e atezolizumab vs atezolizumab vs regorafenib, quest’ultimo scelto come braccio standard.
Endpoint primario dello studio era la sopravvivenza overall nella popolazione ITT. In particolare, era prevista una analisi gerarchica di sopravvivenza, valutando in prima battuta il risultato di efficacia della terapia di combinazione vs regorafenib e, qualora questo fosse risultato statisticamente superiore, proseguendo con l’analisi di sopravvivenza tra I bracci di monoterapia [atezolizumab vs regorafenib].
Nel trial sono stati arruolati 363 pazienti rispettivamente randomizzati 183 al braccio di combinazione, 90 a quello di solo atezolizumab e 90 a quello con solo regorafenib.
I pazienti con mutazione di RAS erano di poco superiori al 50% in ogni braccio, le mutazioni di BRAF inferiori al 5% e la percentuale di instabilità microsatellitare sostanzialmente trascurabile.
Si segnala che l'accrual è durato meno di sei mesi, a testimonianza di quanto da un lato ci fosse convinzione nel disegno dello studio e forte committment all'accrual e dall'altro il trattamento con una nuova combinazione andasse a colmare un bisogno sanitario insoddisfatto.
La sopravvivenza mediana registrata è stata di: 8.9 mesi nel braccio di atezolizumab e cobimetinib; 7.1 mesi nel braccio di solo atezolizumab; 8.51 mesi nel braccio standard con regorafenib [che ha performato meglio dell'atteso]: la differenza in sopravvivenza non è risultata significativa, con HR 1, 95%CI 0.73-1.38 tra il braccio di combinazione e quello standard.
Le tossicità di grado severo più frequenti nel braccio di combinazione sono state la diarrea (riscontrata nel 11% dei pazienti inclusi), la anemia (6%), l'incremento del CPK (7%) e la fatigue (4%).
Il messaggio dello studio è chiaro: mentre l'immunoterapia funziona egregiamente nei tumori MSI-H (abbiamo dati clinici con pembrolizumab, nivolumab e con l'associazione di nivo e ipilimumab), l'idea di utilizzare un MEK inibitore con l'intento di recuperare la sensibilità all'immunoterapia nei tumori colorettali senza instabilità microsatellitare decisamente non funziona.
Molto meno chiaro, tuttavia, è la spiegazione dei risultati dello studio, il cui disegno - almeno in linea teorica - sarebbe stato supportato da razionalità biologica e da evidenze precliniche. E questo indipendentemente dal fatto che non si sia distinto tra tumori colorettali immunoesclusi e immunodesertici.
Come suggerito nel sagace commento di Francesco Sclafani, probabilmente entrano in gioco molti fattori nella questione, ma il dato certo è che lo sviluppo dei MEK inibitori in combinazione ai PD-1 e PD-L1 inibitori avrà certamente una battuta d'arresto.
Inoltre, nel continuare a studiare il miglior approccio immunoterapico ai tumori colorettali, dovrà essere maggiormente considerato il ruolo del microambiente, della flora intestinale e dell'immunità innata, che coinvolge macrofagi, granulociti neutrofili, cellule NK e fibroblasti (Kather JN, et al. Harnessing the innate immune system and local immunological microenvironment to treat colorectal cancer. Br J Cancer 2019, epub ahead of print).
In ogni caso, è opportuno un plauso ai molti autori italiani coautori nella pubblicazione.