A poche settimane dai risultati nel setting di prima linea, presentati in sessione presidenziale ESMO in prima linea, i risultati dello studio KEYNOTE-181, condotto in seconda linea con pembrolizumab, mantengono l’attenzione sull’immunoterapia nel tumore dell’esofago.
Kojima T, Shah MA, Muro K, Francois E, Adenis A, Hsu CH, Doi T, Moriwaki T, Kim SB, Lee SH, Bennouna J, Kato K, Shen L, Enzinger P, Qin SK, Ferreira P, Chen J, Girotto G, de la Fouchardiere C, Senellart H, Al-Rajabi R, Lordick F, Wang R, Suryawanshi S, Bhagia P, Kang SP, Metges JP; KEYNOTE-181 Investigators. Randomized Phase III KEYNOTE-181 Study of Pembrolizumab Versus Chemotherapy in Advanced Esophageal Cancer. J Clin Oncol. 2020 Oct 7:JCO2001888. doi: 10.1200/JCO.20.01888.
Il tumore dell’esofago rappresenta la settima neoplasia più frequente nel mondo in termini di incidenza, e la sesta neoplasia in temini di mortalità.
La storia del trattamento sistemico di questa neoplasia è stata particolarmente avara di innovazioni significative negli ultimi lustri, con una prognosi assolutamente sfavorevole per i pazienti con malattia avanzata / metastatica.
La terapia di prima linea per la malattia avanzata è rappresentata dalla combinazione di platino e fluoropirimidine, che però garantiscono una sopravvivenza libera da progressione mediana non superiore ai 6 mesi e un’aspettativa di vita mediana non superiore all’anno.
Al momento della progressione, un trattamento chemioterapico con un taxano o con irinotecan rappresenta lo standard di seconda linea, anch’esso caratterizzato da risultati clinicamente deludenti.
Nell’ambito dello studio ATTRACTION-3, il farmaco anti-PD1 nivolumab ha dimostrato maggiore efficacia rispetto alla chemioterapia di seconda linea nei tumori squamosi, indipendentemente dall’espressione di PD-L1.
Lo studio di fase III KEYNOTE 181 ha visto la randomizzazione di pazienti affetti da neoplasia esofagea avanzata / metastatica (di istologia squamosa o adenocarcinomi), in progressione dopo una precedente linea di terapia.
I pazienti assegnati al braccio sperimentale hanno ricevuto pembrolizumab alla dose standard di 200 mg ogni 3 settimane, fino a 2 anni di trattamento.
I pazienti assegnati al braccio di controllo hanno ricevuto una chemioterapia a scelta dello sperimentatore (palitaxel, oppure docetaxel, oppure irinotecan).
Endpoint primari erano la sopravvivenza globale in pazienti con PD-L1 CPS maggiore o uguale a 10, la sopravvivenza globale in pazienti con carcinoma squamoso, la sopravvivenza globale in tutti i pazienti.
Il piano statistico dello studio, per controllare il rischio di risultato falso positivo, prevedeva il frazionamento dell’errore alfa tra i 3 confronti primari previsti (specificamente, alfa a 1 coda 0.9% per il confronto nella popolazione di pazienti selezionata per PD-L1, 0.8% per il confronto nei tumori squamosi, 0.8% per il confronto nella popolazione complessiva).
Lo studio ha visto la randomizzazione di 628 pazienti. Il 63.9% aveva un carcinoma squamoso. Poco più di un terzo dei casi aveva un’espressione di PD-L1 (CPS) maggiore o uguale a 10.
La sopravvivenza globale nella popolazione selezionata per l’espressione di PD-L1 superiore a 10 è risultata significativamente superiore con il pembrolizumab (mediana pari a 9.3 mesi rispetto a 6.7 mesi, hazard ratio 0.69, intervallo di confidenza al 95% 0.52 - 0.93; p = 0.0074).
La probabilità di essere in vita a 12 mesi dalla randomizzazione è risultata più che doppia nel braccio sperimentale rispetto al braccio di controllo: 43% (intervallo di confidenza al 95%, 33.5% - 52.1%) con il pembrolizumab rispetto al 20% (intervallo di confidenza al 95%, 13.5% - 28.3%) con la chemioterapia.
La sopravvivenza è risultata significativamente prolungata con il pembrolizumab nei pazienti ad istologia squamosa (mediana pari a 8.2 mesi rispetto a 7.1 mesi, hazard ratio 0.78, intervallo di confidenza al 95% 0.63 - 0.96; p = 0.0095)
La sopravvivenza non è risultata significativamente diversa nella popolazione complessiva (mediana pari a 7.1 mesi in entrambi i bracci, hazard ratio 0.89, intervallo di confidenza al 95% 0.75 - 1.05; p = 0.0560).
L’immunoterapia, come in molti altri studi in cui è stata confrontata in alternativa alla chemioterapia, si è dimostrata associata a un rischio di tossicità di grado 3-5 inferiore rispetto al braccio di controllo: nel dettaglio, la percentuale di pazienti che hanno riportato eventi avversi di grado 3-5 è risultata pari al 18.2% con il pembrolizumab rispetto al 40.9% con la chemioterapia.
Sulla base dei risultati presentati, gli autori concludono che il pembrolizumab ha dimostrato efficacia come trattamento di seconda linea dei pazienti con neoplasia esofagea avanzata, selezionati sulla base dell’espressione di PD-L1 superiore a 10.
La significatività statistica del risultato si accompagna, dal punto di vista della rilevanza clinica, a una differenza che, se non eclatante in termini di mediana, è interessante in termini di incremento della probabilità di sopravvivenza a 1 anno, con una differenza di oltre 20 punti percentuali a favore di pembrolizumab rispetto alla chemioterapia.
Dopo anni di scarse novità terapeutiche in una patologia particolarmente complessa dal punto di vista prognostico, i risultati pubblicati sul Journal of Clinical Oncology si inseriscono in una serie di recenti novità relative all’impiego dell’immunoterapia nel carcinoma dell’esofago, dopo che nel 2019 erano stati pubblicati i risultati ottenuti da nivolumab nella sola istologia squamosa.
Una delle sessioni presidenziali del recente ESMO meeting, interamente dedicata a studi condotti nel tumore dell’esofago con immunoterapia, ha attirato l’attenzione verso questa patologia anche da parte di chi non si occupa specificamente della patologia.
A differenza dello studio qui commentato, gli studi presentati all’ESMO hanno valutato l’impiego dell’immunoterapia, con nivolumab oppure con pembrolizumab, in aggiunta alla chemioterapia, come trattamento di prima linea. Tra questi, anche lo studio KEYNOTE 590, che valutava l’aggiunta di pembrolizumab alla chemioterapia, e che ha dimostrato un prolungamento significativo della sopravvivenza globale sia nella popolazione complessiva che nei pazienti selezionati per espressione di PD-L1.
E’ facile pronosticare un prossimo impiego nella pratica clinica dei farmaci immunoterapici per i pazienti con tumore del’esofago. Un piccolo ma importante passo avanti, che deve stimolare alla ricerca di migliori fattori predittivi dell’efficacia, nonché di diverse strategie sperimentali per puntare ad una maggiore efficacia.