Siete inorriditi, lo so. Ma un apostrofo può cambiare tutto, almeno nel tumore gastrico. Lapatinib non funziona. L'apatinib, si. Pubblicati i risultati dello studio randomizzato cinese che ha testato l'antiangiogenico in pazienti pretrattati: da una molecola che soffre a una che s'offre.
Li J, et al. Randomized, Double-Blind, Placebo-Controlled Phase III Trial of Apatinib in Patients With Chemotherapy-Refractory Advanced or Metastatic Adenocarcinoma of the Stomach or Gastroesophageal Junction. J Clin Oncol 2016, epub Feb 16.
La sperimentazione degli antiangiogenici nel tumore gastrico e della giunzione gastroesofagea ha vissuto alterne fortune: l'iniziale delusione prodotta dallo studio AVAGAST (che valutava bevacizumab in combinazione a chemioterapia di prima linea), seguita dai dati positivi di REGARD e RAINBOW (che hanno testato ramucirumab come single-agent o in combinazione al paclitaxel). Dopo il fallimento del lapatinib (studi LoGIC e TYTAN), il recente successo dell'apatinib.
Questa piccola molecola, inibitore orale tirosinchinasico di VEGFR con una potenza di azione molto maggiore a quella di vatalanib, aveva già dimostrato il suo potenziale in uno studio di fase II pubblicato nel 2013 (Li J, et al. J Clin Oncol 2013). Lo stesso gruppo di ricercatori cinesi ha condotto lo studio randomizzato di fase 3 che ha arruolato in meno di due anni 267 pazienti provenienti da 32 centri. Criteri per l'accrual erano l'aver fallito almeno due precedenti linee di trattamento (pazienti pesantemente pretrattati), malattia misurabile secondo criteri RECIST, età inferiore ai 70 anni, ECOG PS 0-1 e una adeguata funzionalità d'organo.
Il trial prevedeva una randomizzazione 2:1 in doppio cieco tra apatinib (850 mg/die) o placebo, rivalutazioni radiologiche ripetute ogni 8 settimane assieme ai questionari di qualità di vita e un doppio endpoint primario (OS e PFS).
La scelta della dose singola diaria di 850 mg deriva da un miglior profilo di tossicità e una sostanziale equiefficacia paragonata a quella della dose di 425 mg bid (vedi studio di fase 2 randomizzato citato in precedenza).
Nel complesso, 181 pazienti sono stati randomizzati al braccio sperimentale (176 hanno ricevuto il tratttamento) e 92 al placebo (91 trattati). Al momento del data cut-off gli eventi erano stati l'84%.
La sopravvivenza mediana è risultata significativamente aumentata dal trattamento con apatinib: mOS 6.5 mesi vs 4.7 mesi, HR 0.71, 95%CI 0.53-0.93, p=0.015). Analogamente, anche la sopravvivenza libera da progressione è risultata migliore nel braccio sperimentale: mPFS 2.6 mesi vs 1.8 mesi, HR 0.44, p<0.001.
Da notare anche il migliore controllo di malattia per i pazienti trattati con antiangiogenico sia nella valutazione radiologica degli investigatori (doisease control rate 42% vs 9%, p<0.001) che in quella centralizzata (disease control rate 32% vs 11%, p<0.01).
L'analisi della tossicità non ha rivelato sorprese, confermandosi in linea con l'atteso: nei pazienti trattati con apatinib si registrava una maggiore incidenza di HFSR (8.5% vs 0%), ipertensione severa (6.8% vs 0%) e neutropenia (5.7% vs 1.1%).
Apatinib si dimostra superiore al placebo in pazienti molto pretrattati, confermando l'efficacia della strategia antiangiogenica nella patologia gastrica e della giunzione gastroesofagea. Ma non lasciamoci sedurre dagli HR (senza dubbio molto convincenti) che in linea avanzata corrispondono a incrementi temporali modesti.
Mancano, ancora una volta, fattori che possano predire l'efficacia del farmaco.
Va anche chiarito il motivo per cui in questa patologia il beneficio del blocco dell'angiogenesi sembra amplificarsi negli stadi più avanzati della malattia: mentre non si è rilevato vantaggio dall'uso di questa strategia in setting perioperatorio (MAGIC-B) o in prima linea (AVAGAST, AVATAR e trial di Yoon), vi è un consistente miglioramento della sopravvivenza quando gli antiangiogenici sono somministrati in linea successiva (REGARD, RAINBOW, apatinib). Se la chiave stia nella scelta del farmaco (inibitore di VEGF ovvero inibitore di VEGFR2), sarà chiarito dallo studio RAINFALL che testa in prima linea ramucirumab in combinazione alla chemioterapia sistemica.