Uno studio statunitense ha intervistato i pazienti sottoposti anni prima a trattamento per un tumore della prostata localizzato... per capire quanti, con il senno di poi, riconsidererebbero la propria scelta tra chirurgia, radioterapia e sorveglianza attiva.
Hoffman RM, Lo M, Clark JA, Albertsen PC, Barry MJ, Goodman M, Penson DF, Stanford JL, Stroup AM, Hamilton AS. Treatment Decision Regret Among Long-Term Survivors of Localized Prostate Cancer: Results From the Prostate Cancer Outcomes Study. J Clin Oncol. 2017 May 11:JCO2016706317. doi: 10.1200/JCO.2016.70.6317. [Epub ahead of print]
Come noto, il paziente che riceve diagnosi di neoplasia prostatica con malattia confinata alla prostata può essere classificato sulla base di fattori prognostici che identificano diverse categorie di rischio e, in funzione di tali variabili prognostiche, può essere candidato a una condotta “attendistica”, ovvero a un trattamento locale con intento radicale (chirurgia, radioterapia).
Molta risonanza hanno avuto, in questo setting, i risultati dello studio randomizzato ProtecT, pubblicati nel 2016 sul New England Journal of Medicine (N Engl J Med 2016 Oct 13;375(15):1415-1424), che ha confrontato l’outcome di chirurgia, radioterapia e “active monitoring” in 1643 pazienti di età compresa tra 50 e 69 anni, che avessero ricevuto diagnosi di neoplasia prostatica localizzata e fossero disposti ad essere randomizzati tra le 3 strategie terapeutiche. Lo studio ha evidenziato un maggior rischio di progressione nel gruppo randomizzato a sorveglianza attiva rispetto ai trattamenti locali, ma una mortalità complessivamente bassa, senza differenze significative tra i 3 gruppi.
Obiettivo del lavoro pubblicato da Hoffman e colleghi sul Journal of Clinical Oncology era quello di determinare le variabili associate alla probabilità di “pentimento” rispetto alla decisione terapeutica intrapresa al momento della diagnosi di tumore della prostata in stadio iniziale.
Gli autori hanno preso in considerazione gli uomini di età inferiore a 75 anni, che avevano ricevuto diagnosi di tumore della prostata in stadio iniziale tra l’ottobre 1994 e l’ottobre 1995, inseriti in sei registri tumori del SEER statunitense. Tali pazienti sono stati invitati a completare una survey a distanza di 15 anni dalla diagnosi.
La survey raccoglieva informazioni demografiche, socio-economiche, e dati clinici, e misurava il “pentimento” rispetto alla precedente decisione terapeutica, raccogliendo inoltre informazioni circa la soddisfazione relativa al consenso informato ricevuto, la qualità di vita sia generale che legata alla patologia, la preoccupazione relativa allo stato di salute, al valore di PSA.
Allo scopo di identificare i fattori associati ad una maggiore probabilità di “pentirsi” della decisione terapeutica intrapresa, gli autori hanno realizzato un’analisi (regressione logistica) multivariata.
La survey si è basata sulle risposte fornite da 934 partecipanti, pari al 69.3% dei pazienti noti in vita.
Tra i 934 pazienti partecipanti, il 59% aveva caratteristiche di malattia associate a un basso rischio (PSA < 10 ng/ml e Gleason score inferiore a 7), e l’89% dei pazienti era stato sottoposto a trattamento attivo (chirurgia o radioterapia).
Nel complesso, il 14.6% dei rispondenti ha espresso rimpianto rispetto alla decisione terapeutica effettivamente intrapresa: nel dettaglio, l’8.2% dei soggetti che avevano scelto una gestione conservativa, il 15.0% di quelli che erano stati sottoposti a chirurgia, e il 16.6% dei soggetti che erano stati sottoposti a radioterapia.
Nell’analisi multivariata che aveva l’obiettivo di identificare i fattori significativamente associati a una maggiore probabilità di “pentirsi” della decisione terapeutica, i fattori significativi sono stati:
Complessivamente, lo studio pubblicato sul Journal of Clinical Oncology ha evidenziato che, in una serie di pazienti lungo-sopravviventi dopo aver ricevuto una diagnosi di neoplasia prostatica localizzata, la proporzione di soggetti “pentiti” rispetto alla propria decisione terapeutica è relativamente piccola.
D’altra parte, dal momento che i trattamenti attivi sono inevitabilmente associati a una certa probabilità di riportare effetti collaterali, e che alcuni di tali effetti collaterali possono determinare un significativo impatto sulla qualità di vita, è ovviamente molto importante discutere accuratamente i pro e i contro di ciascuna opzione terapeutica, al momento della diagnosi.
Non è un caso che la probabilità di pentimento fosse infatti maggiore nei soggetti che avevano poi sofferto di fastidi dopo la terapia, e soprattutto è importante sottolineare che i soggetti “soddisfatti” circa l’accuratezza dell’informazione ricevuta sono poi quelli che più difficilmente si lamentavano della decisione precedentemente presa.
Le linee guida AIOM (edizione 2016) recitano, a proposito di questo argomento: “[...] La scelta del trattamento dovrebbe inoltre tener conto delle preferenze del paziente (considerando anche le diverse sequele legate ai singoli trattamenti), che pertanto andrebbe correttamente informato sui benefici potenziali, sui rischi e sugli esiti di ciascun tipo di procedura. [...]”
In altre parole, la scelta del trattamento NON può essere determinata solamente dalle preferenze dello specialista che il paziente “incontra” per primo: il colloquio con il paziente dovrebbe sempre essere preceduto dalla discussione inter-disciplinare, e una corretta informazione aumenterebbe sicuramente, come suggerito dai dati del lavoro statunitense, la soddisfazione (anche a lungo termine) del paziente.