Pubblicato sul NEJM il bel risultato ottenuto nei pazienti con tumore del rene, usando la combinazione di 2 farmaci immunoterapici (nivolumab e ipilimumab) invece del sunitinib. Un ennesimo scatto in avanti dell’immunoterapia nel trattamento dei tumori solidi.
Motzer RJ, Tannir NM, McDermott DF, Arén Frontera O, Melichar B, Choueiri TK, Plimack ER, Barthélémy P, Porta C, George S, Powles T, Donskov F, Neiman V, Kollmannsberger CK, Salman P, Gurney H, Hawkins R, Ravaud A, Grimm MO, Bracarda S, Barrios CH, Tomita Y, Castellano D, Rini BI, Chen AC, Mekan S, McHenry MB, Wind-Rotolo M, Doan J, Sharma P, Hammers HJ, Escudier B; CheckMate 214 Investigators. Nivolumab plus Ipilimumab versus Sunitinib in Advanced Renal-Cell Carcinoma. N Engl J Med. 2018 Mar 21. doi: 10.1056/NEJMoa1712126. [Epub ahead of print] PubMed PMID: 29562145.
Il trattamento standard dei pazienti con carcinoma del rene avanzato (neoplasia che da decenni è considerata tra quelle potenzialmente più sensibili all’immunoterapia) ha già visto l’introduzione del nivolumab che, come agente singolo, si era dimostrato efficace come terapia di seconda linea (al fallimento del precedente trattamento con un inibitore di tirosino-chinasi).
La combinazione di 2 immune checkpoint inhibitors, nivolumab e ipilimumab, che quindi comporta un “doppio blocco” sia di PD1 che di CTLA4, ha già dimostrato efficacia nel trattamento del melanoma, ed è attualmente in sperimentazione anche in altri tipi di tumori solidi.
Nel tumore del rene, studi iniziali hanno documentato un buon risultato in termini di risposte obiettive grazie all’impiego della combinazione dei 2 farmaci, e tale risultato preliminare ha rappresentato il razionale per lo studio di fase III Checkmate 214, ora pubblicato sulle pagine del New England Journal of Medicine.
Lo studio prevedeva la randomizzazione dei pazienti, affetti da neoplasia renale a cellule chiare, in stadio avanzato, candidati a trattamento di prima linea, in rapporto 1:1.
Lo studio prevedeva 3 endpoint co-primari, nella popolazione di pazienti “intermediate risk” e “poor risk”:
Al fine di evitare un rischio inaccettabile di risultato falso positivo in considerazione della molteplicità dei test statistici imposti dai 3 endpoints, il disegno statistico prevedeva una ripartizione dell’errore alfa: 0.04 per la sopravvivenza globale, 0.001 per la risposta obiettiva, 0.009 per la sopravvivenza libera da progressione.
Complessivamente, lo studio ha visto la randomizzazione di 1096 pazienti: 550 pazienti assegnati a ricevere nivolumab + ipilimumab (braccio sperimentale) e 546 pazienti assegnati a ricevere sunitinib (braccio di controllo): di questi, rispettivamente 425 e 422 erano nelle categorie “intermediate”/”poor” e quindi rientravano nella popolazione di analisi per gli endpoint primari.
In tale popolazione di pazienti “intermediate/poor risk”, la sopravvivenza globale a 18 mesi dalla randomizzazione è risultata pari al 75% per il braccio sperimentale, rispetto al 60% per il braccio di controllo. La sopravvivenza mediana non è stata ancora raggiunta nel braccio sperimentale, mentre è risultata pari a 26 mesi con sunitinib (hazard ratio pari a 0.63, p<0.001).
La proporzione di risposte obiettive è risultata pari a 42% con nivolumab + ipilimumab, e pari a 27% con sunitinib (p<0.001). La proporzione di risposte complete è risultata rispettivamente pari al 9% rispetto all’1%.
La sopravvivenza libera da progressione mediana è risultata pari a 11.6 mesi con nivolumab + ipilimumab, rispetto a 8.4 mesi con sunitinib (hazard ratio 0.82, p=0.03, statisticamente non significativo in quanto la soglia di significatività era conservativamente fissata a 0.009)
Eventi avversi severi (grado 3-4) si sono verificati nel 46% dei pazienti trattati con la combinazione di nivolumab e ipilimumab, e nel 63% dei pazienti trattati con sunitinib. Invece, gli eventi avversi associati al trattamento, che hanno comportato l’interruzione del trattamento stesso, si sono verificati rispettivamente nel 22% e nel 12% dei casi.
Sulla base dei risultati presentati nel lavoro, gli autori concludono che la combinazione di nivolumab e ipilimumab risulta superiore rispetto al trattamento standard con sunitinib, come terapia di prima linea del carcinoma renale avanzato. Non c’è dubbio che i risultati rappresentino un altro importante tassello nel mosaico delle evidenze di efficacia dell’immunoterapia di nuova generazione. La combinazione di 2 farmaci ha prodotto un incremento significativo delle risposte obiettive (e va sottolineato che 1 paziente su 11 ha ottenuto una risposta completa, che rimane invece aneddotica con l’impiego dei farmaci anti-angiogenici), e un prolungamento significativo della sopravvivenza globale (con una mediana che, al momento dell’analisi presentata nel lavoro, non è stata ancora raggiunta).
Va detto che la scelta di impiegare la combinazione in tutti i pazienti va in direzione “contraria” rispetto alla filosofia della personalizzazione della terapia. Negli ultimi anni, pur rimanendo sostanzialmente in alto mare per quanto riguarda la vera personalizzazione del trattamento e l’identificazione dei fattori predittivi dell’efficacia dell’immunoterapia, è stato spesso sottolineato che alcuni tumori sono sensibili all’impiego di un immunoterapico come agente singolo, mentre in altri casi sono necessarie strategie di combinazione di 2 immunoterapici o di un immunoterapico con altri farmaci, allo scopo di prevenire / vincere i meccanismi di resistenza. Impiegare un approccio di combinazione in tutti i pazienti significa probabilmente “sovratrattare” un certo numero di pazienti, che potrebbero ottenere un beneficio simile, ad esempio, anche con il nivolumab da solo. La sfida del prossimo futuro, sul piano sia della ottimizzazione del rapporto tra benefici e danni (in quanto la combinazione non è “immune” da effetti collaterali), sia della sostenibilità economica, è la migliore caratterizzazione dei fattori predittivi. Quanti e quali pazienti avrebbero avuto lo stesso risultato impiegando il nivolumab da solo? L'assenza di un braccio di monoterapia impedisce, al momento, di rispondere a questa domanda.
Dal punto di vista della personalizzazione del trattamento, l’analisi del sottogruppo di pazienti a buona prognosi suggerisce un’interazione qualitativa tra la classe prognostica e l’efficacia dei trattamenti in studio: se nei pazienti “intermediate / poor risk” la superiorità di nivolumab + ipilimumab rispetto a sunitinib è abbastanza schiacciante, nella categoria a buona prognosi i risultati vanno esattamente in direzione contraria, confermando che in tale sottogruppo il trattamento con l’anti-angiogenico rimane la migliore opzione terapeutica.
In defitiniva, la sensazione è che, nei prossimi 5 anni, gli algoritmi terapeutici e le raccomandazioni saranno abbastanza stravolte rispetto all’attuale pratica clinica.