Un’analisi delle caratteristiche molecolari dei casi di tumore alla prostata ormonosensibile metastatico ha evidenziato differenze tra i casi di malattia metastatica sincrona e metacrona: si tratta di malattie a prognosi diversa, e l’aggressività della malattia potrà ragionevolmente condizionare la maggiore o minore intensità del trattamento sistemico.
Sutera PA, Shetty AC, Hakansson A, Van der Eecken K, Song Y, Liu Y, Chang J, Fonteyne V, Mendes AA, Lumen N, Delrue L, Verbeke S, De Man K, Rana Z, Hodges T, Hamid A, Roberts N, Song DY, Pienta K, Ross AE, Feng F, Joniau S, Spratt D, Gillessen S, Attard G, James ND, Lotan T, Davicioni E, Sweeney C, Tran PT, Deek MP, Ost P, Transcriptomic and clinical heterogeneity of metastatic disease timing within metastatic castration-sensitive prostate cancer., Annals of Oncology (2023), doi: https://doi.org/10.1016/j.annonc.2023.04.515.
Negli ultimi anni, il trattamento del tumore della prostata ormono-sensibile metastatico è molto cambiato: fino a poco tempo fa, la terapia di deprivazione androgenica (androgen deprivation therapy, ADT) rappresentava l’unica terapia raccomandata, mentre recentemente è stata dimostrata l’efficacia dell’impiego, in aggiunta all’ADT, sia del docetaxel sia di diversi farmaci ormonali di nuova generazione. La necessità di classificare i pazienti sulla base della prognosi e dell’opportunità di essere più o meno aggressivi con la terapia farmacologica ha portato alla definizione di categorie di rischio e di volume di malattia.
Precedenti studi hanno suggerito che i pazienti con volume elevato di malattia (“high volume”) hanno caratteristiche biologiche, prognosi e risposta alle terapie diverse rispetto ai pazienti con basso volume di malattia (“low volume”).
Anche il tempo intercorso tra la diagnosi di tumore della prostata e la diagnosi di malattia metastatica (sincrona quando le metastasi vengono diagnosticate contestualmente al tumore primitivo, metacrona quando le metastasi vengono diagnosticate a distanza di tempo) è un fattore di interesse per la caratterizzazione clinica, prognostica e biologica della malattia.
Sulla base di queste premesse, con l’intenzione di descrivere le differenze in termini di caratteristiche biologiche tra i casi con metastasi sincrone e i casi con metastasi metacrone, gli autori del lavoro pubblicato da Annals of Oncology hanno confrontato le caratteristiche molecolari (in termini di trascrittoma) di una serie di casi.
La casistica di pazienti oggetto dell’analisi è frutto di una collaborazione multicentrica internazionale, condotta con l’obiettivo di raccogliere retrospettivamente i casi di tumore della prostata ormonosensibile metastatico, caratterizzando il profilo di espressione del RNA (trascrittoma) del tumore primitivo, e confrontando i casi di metastasi sincrone con i casi di metastasi metacrone.
Obiettivo primario era il confronto tra i due gruppi di pazienti in termini di caratteristiche molecolari. In aggiunta, tra gli obiettivi secondari c’era l’analisi dell’associazione tra le caratteristiche cliniche e molecolari associate alla prognosi in termini di sopravvivenza globale.
L’analisi di sopravvivenza è stata condotta mediante metodo di Kaplan-Meier e impiegando un’analisi multivariata (modello di Cox).
In totale sono stati inclusi nell’analisi 252 pazienti, con un follow-up mediano di 39.6 mesi.
I pazienti con metastasi sincrone hanno mostrato una sopravvivenza peggiore rispetto ai casi con diagnosi metacrona: nello specifico, la sopravvivenza a 5 anni dalla diagnosi di malattia metastatica è risultata pari al 39% rispetto al 79% (p<0.01).
I pazienti con metastasi sincrone hanno mostrato un livello inferiore di Androgen Receptor Activity (AR-A) (11.78 vs 12.64, p<0.01), nonché un livello inferiore di Hallmark Androgen Response (HAR) (3.15 vs 3.32; p<0.01).
L’analisi multivariata ha evidenziato un’associazione significativa con la sopravvivenza globale del volume di malattia (con una prognosi significativamente peggiore per i casi ad alto volume, Hazard Ratio 4.97, intervallo di confidenza al 95% 2.71-9.10; p<0.01) e per l’HAR score (con una prognosi significativamente peggiore per i casi con livello inferiore di HAR, Hazard Ratio 0.51, intervallo di confidenza al 95% 0.28-0.88; p=0.02).
E’ stata osservata un’interazione significativa tra il timing della diagnosi di metastasi e l’efficacia della terapia di combinazione (chemioterapia + ADT, oppure in alcuni casi radioterapia sul tumore primitivo + ADT) rispetto all’ADT da sola. Nel dettaglio, la terapia di combinazione è risultata significativamente più efficace della monoterapia nei casi con metastasi sincrone (Hazard Ratio 0.47, intervallo di confidenza al 95% 0.30-0.72; <0.01), ma non nei casi con metastasi metacrone (Hazard Ratio 1.37, intervallo di confidenza al 95% 0.50-3.92; p=0.56), con un test di interazione significativo (p=0.05).
La differenza prognostica tra i pazienti con malattia sincrona e quelli con malattia metacrona è risultata più evidente nel sottogruppo di casi con basso volume di malattia, mentre non è risultata significativa nei pazienti con alto carico.
Sulla base dei risultati sopra sintetizzati, gli autori sottolineano di aver descritto una differenza biologica tra i casi con metastasi sincrone e i casi con malattia metastatica metacrona.
In particolare, tra i casi con basso volume di malattia, il profilo trascrizionale suggerisce una maggiore ormonosensibilità per i casi con malattia metacrona, con una prognosi migliore di questi ultimi rispetto ai casi sincroni.
Lo studio aiuta a caratterizzare anche dal punto di vista molecolare i pazienti di un setting che, negli ultimi anni, ha visto importanti novità diagnostiche (con tecniche di imaging più sensibili) e terapeutiche (con la disponibilità di agenti ormonali di nuova generazione, impiegati in combinazione con la sola ADT oppure in combinazione con ADT e docetaxel).
Lo studio, come debitamente sottolineato dagli autori in discussione, presenta numerosi limiti. In primis, i pazienti inseriti nell’analisi avevano tutti ricevuto, come trattamento per la malattia metastatica ormonosensibile, ADT ed eventualmente docetaxel (o in alcuni casi radioterapia sul tumore primitivo), mentre non sono rappresentati pazienti trattati con agenti ormonali di nuova generazione, che oggi hanno uno spazio notevole nella pratica clinica. Il gruppo di pazienti con alto volume e malattia metacrona era poco rappresentato, e questo potrebbe aver condizionato la non significatività del confronto tra casi sincroni e metacroni nel sottogruppo ad alto volume. Da sottolineare anche che un certo numero di pazienti (tutti nel gruppo con malattia metacrona) aveva una evidenza di metastasi solo alla PET ma era M0 con l’imaging tradizionale, e chiaramente questo può influenzare almeno in parte il confronto prognostico e clinico tra i due gruppi.
Pur con i suddetti limiti, il lavoro è molto interessante perché documenta la possibilità di valutare, sul tessuto tumorale primitivo, una maggiore o minore ormonosensibilità, e questi elementi (clinici e molecolari) potrebbero avere un ruolo nelle decisioni terapeutiche, se opportunamente “calati” nello scenario terapeutico attuale.