Come interpretare un confronto in sopravvivenza globale che non raggiunge la significatività statistica, a fronte di un netto beneficio in sopravvivenza libera da progressione? La questione non è solo statistica, ma ha importanti risvolti clinici. Lo studio SOLO2 con olaparib nel tumore dell’ovaio offre un esempio scolastico.
Andrés Poveda, Anne Floquet, Jonathan A Ledermann, et al. Olaparib tablets as maintenance therapy in patients with platinum-sensitive relapsed ovarian cancer and a BRCA1/2 mutation (SOLO2/ENGOT-Ov21): a final analysis of a double-blind, randomised, placebo-controlled, phase 3 trial. The Lancet Oncology, Available online March 18, 2021. ISSN 1470-2045, https://doi.org/10.1016/S1470-2045(21)00073-5.
Negli ultimi anni, alcuni dei risultati più eclatanti in ambito oncologico sono stati ottenuti con gli iniitori di PARP nelle donne affette da tumore dell’ovaio, con un beneficio particolarmente rilevante nei casi caratterizzati da mutazione di BRCA o altri geni del riparo del DNA.
Come spesso accade, i farmaci che si dimostrano efficaci vengono testati in un setting progressivamente più precoce della malattia. Lo stesso si sta verificando in questi anni per i PARP inibitori nel tumore dell’ovaio, in quanto i primi studi di mantenimento erano condotti in pazienti che avevano già ricevuto varie linee di terapia con platino, mentre gli studi più recenti hanno testato l’impiego del trattamento target in una linea più precoce.
D’altra parte, uno dei primi studi randomizzati ad essere stati condotti in questo setting e pubblicati, nel 2017, è stato lo studio SOLO2. La pubblicazione iniziale aveva documentato un significativo beneficio in sopravvivenza libera da progressione. A distanza di alcuni anni, sono ora presentati i risultati di sopravvivenza globale, con un follow-up molto più maturo.
Lo studio SOLO2/ENGOT-Ov21 era disegnato come studio randomizzato di fase III, in doppio cieco, controllato con placebo. Lo studio prevedeva la randomizzazione a mantenimento con il PARP inbitore olaparib vs placebo, di pazienti con tumore dell’ovaio di alto grado, ad istologia sierosa o endometrioide, che, a causa di progressione platino-sensibile (vale a dire con un intervallo pari ad almeno 6 mesi dal termine della precedente linea di terapia con platino), avessero ricevuto rechallenge con platino, ottenendo una risposta parziale o completa. Si trattava quindi di pazienti candidate alla terapia di mantenimento dopo aver ricevuto non la prima linea contenente platino ma almeno la seconda. L’eleggibilità prevedeva la dimostrazione di mutazione BRCA1 o BRCA2 sul tessuto tumorale o sul sangue.
Lo studio prevedeva una randomizzazione 2:1, stratificata in base alla risposta alla precedente terapia con platino e alla lunghezza dell’intervallo libero da platino (inferiore o superiore a 12 mesi):
L’endpoint primario dell’analisi, riportato nella pubblicazione del 2017 (Pujade-Lauraine E, et al. Lancet Oncol. 2017 Sep;18(9):1274-1284), era la sopravvivenza libera da progressione (progression-free survival, PFS). L’analisi primaria aveva evidenziato un vantaggio significativo a favore di olaparib, con una PFS mediana pari a 19.1 mesi rispetto a 5.5 mesi con il placebo (hazard ratio 0.30, intervallo di confidenza al 95% 0.22 -0. 41, p<0.0001). L’analisi di qualità di vita non aveva evidenziato una differenza significativa tra olaparib e placebo, interpretata dagli autori come la prova della buona tollerabilità del trattamento sperimentale.
La sopravvivenza globale era endpoint secondario, ed è stata oggetto dell’analisi aggiornata pubblicata da Lancet Oncology a marzo 2021.
Il protocollo dello studio prevedeva che l’analisi di sopravvivenza globale sarebbe stata eseguita al 60% di maturità, vale a dire dopo la registrazione di 177 eventi. In previsione del crossover per il quale almeno una parte delle pazienti del braccio di controllo avrebbero ricevuto un PARP inibitore dopo la progressione, il protocollo prespecificava un’analisi esploratoria condotta per provare a stimare il confronto tra i bracci al netto del crossover, vale a dire troncando le pazienti nel braccio di controllo al momento dell’eventuale inizio del PARP inibitore.
Lo studio ha randomizzato complessivamente 295 pazienti, tra il 2013 e il 2014. Nel dettaglio, 196 pazienti sono state assegnate ad olaparib e 99 sono state assegnate a placebo.
Tutte le pazienti randomizzate avevano una mutazione germinale di BRCA (in due terzi dei casi BRCA1, in un terzo BRCA2). Circa metà avevano ottenuto una risposta completa al platino, le rimanenti una risposta parziale. Circa il 60% erano alla seconda linea di platino, le rimanenti avevano già ricevuto un numero maggiore di linee. L’intervallo libero da platino era stato tra 6 e 12 mesi nel 40%, oltre i 12 mesi nel rimanente 60%.
La pubblicazione presenta i dati con un follow-up mediano superiore a 5 anni in entrambi i bracci dello studio.
Il crossover è risultato non trascurabile: nel dettaglio, il 38% delle pazienti del braccio di controllo ha ricevuto, successivamente alla progressione di malattia, un PARP inibitore.
La sopravvivenza mediana è risultata pari a 51.7 mesi nel braccio sperimentale (intervallo di confidenza al 95% 41.5 – 59.1) e pari a 38·8 mesi (intervallo di confidenza al 95% 31.4 – 48.6) con il placebo (hazard ratio 0.74, intervallo di confidenza al 95% 0. 54–1. 00, p=0.054).
In aggiunta all’analisi principale di sopravvivenza globale , gli autori presentano un’analisi aggiuntiva che corregge per il crossover avvenuto nel braccio di controllo. Tale analisi evidenzia un vantaggio statisticamente significativo per il trattamento sperimentale (hazard ratio 0.56, intervallo di confidenza 0.35 – 0.97).
In pratica, il confronto di OS non raggiunge la significatività statistica nell'analisi principale, ma la raggiunge nell'analisi esploratoria che correggeva per il crossover.
Nel lavoro è presentato anche un aggiornamento dell’analisi di tossicità, rispetto alla pubblicazione primaria del 2017. L’evento severo (grado 3 o peggiore) più comune con olaparib è risultato l’anemia (21% delle pazienti, rispetto al 2% nel braccio di controllo). Nel complesso, il 26% delle pazienti assegnate al braccio sperimentale ha riportato un evento avverso serio in corso di trattamento, rispetto all’8% delle pazienti trattate con placebo. Nel braccio sperimentale sono stati registrati 6 casi di eventi avversi letali attribuiti al trattamento (3 sindromi mielodisplastiche e 3 casi di leucemia mieloide acuta).
Gli autori commentano il risultato di sopravvivenza globale dello studio SOLO2 sottolineando che la differenza tra il braccio sperimentale e il braccio di controllo, sebbene non statisticamente significativa, è clinicamente rilevante. E’ un’affermazione metodologicamente corretta? In realtà, la rilevanza clinica di una differenza dovrebbe essere discussa solo dopo la dimostrazione della sua “affidabilità”, quindi della significatività statistica. A rigore, una differenza non statisticamente significativa potrebbe essere attribuita al caso, e quindi la discussione della rilevanza clinica potrebbe essere “fondata” su basi deboli.
In realtà, l’argomento è complesso. Lo studio ha evidenziato una differenza mediana in sopravvivenza globale molto simile alla differenza mediana evidenziata in sopravvivenza libera da progressione (oltre 12 mesi), quindi è plausibile che il vantaggio osservato a favore del braccio sperimentale non sia “casuale”, ma sia la conseguenza dell’effetto del trattamento sul controllo di malattia e sulla sopravvivenza libera da progressione.
Peraltro, come ampiamente discusso nella letteratura di questi anni, all’aumentare dell’aspettativa di vita e della sopravvivenza dopo la progressione, diventa progressivamente più difficile dimostrare un incremento significativo della sopravvivenza globale, in particolare quando lo studio è disegnato e dimensionato avendo come endpoint primario la sopravvivenza libera da progressione.
Un incremento di circa 13 mesi di PFS mediana rispetto al braccio di controllo corrispondeva, per questo studio, ad un nettissimo risultato (hazard ratio 0.30), dal momento che la PFS mediana nel braccio di controllo era pari a soli 5.5 mesi. Diverso è il discorso in OS, dove l’incremento di circa 13 mesi in mediana corrisponde a un incremento da 39 a 52 mesi, quindi un incremento in proporzione molto più modesto rispetto all’incremento in PFS, sebbene simile in termini assoluti. Per avere una potenza statistica adeguata a dimostrare un incremento in OS, occorrerebbe un numero di pazienti nettamente più elevato rispetto al numero di pazienti necessario per dimostrare il vantaggio in PFS.
Una percentuale significativa di pazienti nel braccio di controllo ha ricevuto un PARP inibitore dopo la progressione, e questo può inevitabilmente “diluire” la differenza tra i bracci in sopravvivenza globale. Gli autori presentano un’analisi esploratoria (descritta nel protocollo e nei metodi della pubblicazione) in cui, troncando il follow-up nel momento dell’inizio dell’eventuale trattamento con PARP inibitore nel braccio di controllo, dimostrano una differenza significativa in OS tra i bracci.
Indipendentemente dal crossover e dalle considerazioni sulla scarsa potenza dell’analisi di OS, c’è da chiedersi se, in uno studio che ha scelto la PFS come endpoint primario e ha dimostrato un vantaggio in PFS significativo e indubbiamente clinicamente rilevante (oltre 1 anno), il vantaggio in PFS (unito al dato dei patient-reported outcomes che “integra” il dato strumentale) sia interpretabile come un beneficio “intrinseco” del trattamento sperimentale, a prescindere dalla dimostrazione del beneficio in OS.
Si tratta probabilmente di un dibattito metodologico destinato a ripetersi per altri farmaci e altri setting. Peraltro, quando i vantaggi dimostrati sono di entità pari a quella dei PARP inibitori nelle pazienti con tumore dell’ovaio caratterizzato da mutazioni sensibilizzanti, è abbastanza “facile” interpretare l’evidenza, rispetto ad altri farmaci che, in altri contesti, abbiano dimostrato vantaggi modesti e di dubbia rilevanza clinica.
Rispetto all’evidenza prodotta dallo studio SOLO2, in questi anni il panorama dell’impiego dei PARP inibitori come terapia di mantenimento nelle pazienti con tumore dell’ovaio si è arricchito di numerose evidenze, sia per il numero di farmaci (olaparib, rucaparib, niraparib), sia per la selezione delle pazienti (con dimostrazione di beneficio non limitato alle pazienti con mutazione di BRCA), sia per la linea di trattamento (con evidenza di un rilevante beneficio quando il trattamento viene proposto come mantenimento immediatamente dopo la prima linea di terapia con platino, quindi in un setting anticipato rispetto a quello dello studio SOLO2).