Destano curiosità e interesse scientifico i risultati di uno studio olandese in cui un test del respiro predice le chance di successo dell’immunoterapia nel tumore del polmone. Ma si tratta di dati molto preliminari!
R de Vries, M Muller, V van der Noort, W S M E Theelen, R D Schouten, K Hummelink, S H Muller, M Wolf-Lansdorf, J W F Dagelet, K Monkhorst, A H Maitland-van der Zee, P Baas, P J Sterk, M M van den Heuvel, Prediction of response to anti-PD-1 therapy in patients with non-small-cell lung cancer by electronic nose analysis of exhaled breath, Annals of Oncology, , mdz279, https://doi.org/10.1093/annonc/mdz279
L’immunoterapia è parte del trattamento di una proporzione rilevante di pazienti affetti da tumour del polmone non a piccolo cellule (non-small-cell lung cancer, NSCLC) avanzato, grazie alla dimostrazione di beneficio in termini di sopravvivenza prima come trattamento di seconda linea di pazienti che avessero fallito una precedente chemioterapia (nivolumab o pembrolizumab o atezolizumab), sia come trattamento di prima linea per pazienti selezionati sulla base dell’elevata espressione di PD-L1 (pembrolizumab). Nel prossimo futuro, inoltre, sarà possibile considerare anche in Italia il trattamento di prima linea con la combinazione di chemioterapia + immunoterapia.
Sarebbe preziosa la capacità di predire accuratamente la chance di risposta al trattamento immunoterapico, non solo per ovvi motivi clinici, ma anche perché si tratta di farmaci dal costo non indifferente, e l’ottimizzazione dell’indicazione, limitando il trattamento ai soli pazienti che ne avranno beneficio, risparmiandolo invece a quelli che non ne avranno beneficio, rappresenterebbe un progresso notevole.
La selezione mediante espressione di PD-L1 è lungi dall’essere ottimale, sia in termini di predittività positiva (non tutti i pazienti con espressione elevata rispondono all’immunoterapia), sia in termini di predittività negativa (in quanto possono teoricamente beneficiare del trattamento anche pazienti il cui tumore non esprime PD-L1, o lo esprime in bassa percentuale). L’identificazione di biomarker / fattori predittivi ottimali rimane quindi un bisogno largamente insoddisfatto.
In questo scenario, si inserisce l’interessante studio condotto dagli autori olandesi e recentemente pubblicato da Annals of Oncology. La loro ipotesi era che la caratterizzazione molecolare dell’aria espirata, misurata mediante un vero e proprio “naso elettronico”, possa “fotografare” le caratteristiche dell’ambiente infiammatorio delle vie aeree, consentendo di predire la sensibilità individuale al trattamento mediante inibitori del checkpoint immunitario.
Lo studio aveva quindi come obiettivo quello di determinare l’accuratezza (in termini di sensibilità, specificità, capacità predittiva positiva e capacità predittiva negativa) dell’analisi dell’aria espirata, in pazienti con NSCLC avanzato, poi sottoposti al trattamento con un farmaco anti-PD-1 (nivolumab o pembrolizumab).
La casistica disponibile è stata operativamente divisa in un set di training e in un set di validazione.
Al basale, prima dell’inizio del trattamento immunoterapico, è stata eseguita una duplice raccolta e misurazione dell’aria espirata mediante un naso elettronico (eNose), basato sull’impiego di un semiconduttore metallico.
L’attività del trattamento immunoterapico è stata poi misurata mediante i classici criteri di risposta RECIST 1.1, a 3 mesi dall’inizio del trattamento, dividendo i pazienti in non-rispondenti (vale a dire quelli che avessero una progressione di malattia secondo RECIST) o rispondenti (vale a dire quelli che ottenessero una stabilizzazione di malattia o una risposta obiettiva).
La scelta di unire le stabilizzazioni e le risposte è stata determinata dalla volontà di ottimizzare la capacità predittiva negativa, vale a dire la capacità di identificare i veri fallimenti precoci del trattamento, coincidenti in pratica con le progressioni di malattia entro i 3 mesi, considerando quindi come “non fallimenti” sia le stabilità che le risposte.
La valutazione della qualità predittiva del classificatore è stata valutata mediante curva ROC (Receiver Operating Characteristic, che come noto rappresenta lungo i due assi la sensibilità e (1 - specificità).
L’analisi è stata condotta su 143 pazienti con NSCLC avanzato candidati, nella pratica clinica, a ricevere trattamento immunoterapico con nivolumab o pembrolizumab. Nel dettaglio, 92 pazienti sono stati inclusi nella coorte di training e 51 pazienti nella coorte di validazione.
La maggior parte dei pazienti della coorte di training ha ricevuto nivolumab, mentre nella coorte di validazione erano rappresentati anche pazienti trattati con pembrolizumab. La quasi totalità dei pazienti della coorte di training aveva ricevuto l’immunoterapia dopo il fallimento di una precedente chemioterapia, mentre nella coorte di validazione molti pazienti hanno ricevuto immunoterapia di prima linea.
Le variabili analitiche testate mediante i sensori ENose hanno mostrato una buona capacità predittiva nell’identificare i casi non rispondenti alla terapia con anti-PD-1.
Nel dettaglio, gli autori hanno scelto un valore-soglia che consente di identificare, con il 100% di specificità, i casi non rispondenti: in altre parole, scegliendo il valore-soglia di 0.72, tutti i pazienti con un punteggio basale superiore poi avevano avuto progressione al trattamento.
Chiaramente, la scelta di pretendere un cutoff che garantisse specificità al 100%, comporta un certo sacrificio della sensibilità: in altre parole, molti pazienti non rispondenti avevano un valore inferiore a 0.72. Il test non è tanto quindi efficiente nell’identificare i rispondenti, quanto piuttosto i fallimenti precoci.
L’area sotto la curva ROC per il biomarker basato sui valori ottenuti con i sensori ENose è pari a 0.89 (intervallo di confidenza 0.82 – 0.96), confermato anche nella coorte di validazione (0.85, intervallo di confidenza 0.75 – 0.96).
Sul sottogruppo, numericamente limitato, di casi in cui la capacità predittiva del sensore ENose è stata confrontata con la capacità predittiva dell’analisi immunoistochimica di PD-L1, ENose è risultato superiore al PD-L1.
L’analisi pubblicata su Annals of Oncology è di sicuro interesse, in quanto propone un biomarker per la selezione dei pazienti da candidare al trattamento immunoterapico. La scarsa capacità predittiva, sia in positivo (vale a dire la scarsa capacità di identificare i casi che risponderanno al trattamento), sia in negativo (vale a dire la scarsa capacità di predire i casi che non risponderanno, andando in progressione precoce) è oggi un tallone d’Achille del trattamento immunoterapico, con importanti ripercussioni sia cliniche che farmaco-economiche. La migliore capacità predittiva consentirebbe di evitare il trattamento nei casi che non ne avranno beneficio, con evidente risparmio anche in termini di risorse economiche.
Come se non bastasse, il biomarker proposto dal lavoro olandese è caratterizzato dall’essere non invasivo e di relativamente facile esecuzione. Finora, la sfida principale è stata quella di spostare dal tessuto al sangue la capacità di testare biomarker predittivi, e un test basato sul respiro è addirittura più semplice e meno invasivo rispetto al pur comodo prelievo di sangue.
Detto questo, i risultati presentati nel lavoro appaiono promettenti e interessanti, ma lontani da una solida dimostrazione di utilità e di applicabilità. I pazienti analizzati non sono molti (in particolare, la coorte di validazione è rappresentata da una cinquantina di pazienti), e ancor meno sono quelli per i quali era disponibile il dato relativo all’espressione di PD-L1. Gli autori, su questi pochi pazienti, riscontrano una capacità predittiva migliore per il test del respiro rispetto all’analisi immunoistochimica di PD-L1, ma sinceramente appare doverosa una conferma di questi risultati su una casistica indipendente.
L’endpoint scelto, vale a dire la progressione a 3 mesi, ha un senso, in quanto consentirebbe di “etichettare” i pazienti in cui è ragionevole presumere la totale inefficacia del trattamento immunoterapico.
Peraltro, gli autori hanno giustamente scelto un cutoff al di sopra del quale il 100% dei casi positivi andasse poi effettivamente in progressione precoce, perché sarebbe problematico e poco accettabile se la specificità fosse invece inferiore al 100%, e venissero “etichettati” come non rispondenti casi che invece poi potrebbero avere beneficio dal trattamento immunoterapico.
Sarà interessante, quindi, vedere se tale cut-off manterrà questa specificità ottimale anche in casistiche esterne sulle quali il test deve essere necessariamente validato.