In assenza di studi randomizzati che abbiano documentato il reale beneficio di proseguire oltre i 2 anni il trattamento nei pazienti con malattia controllata e in assenza di tossicità, un’analisi retrospettiva non evidenzia differenze significative tra chi si fermava e chi proseguiva indefinitamente. Fino a prova contraria, è corretto fermarsi.
Sun L, Bleiberg B, Hwang W, et al. Association Between Duration of Immunotherapy and Overall Survival in Advanced Non–Small Cell Lung Cancer. JAMA Oncol. Published online June 04, 2023. doi:10.1001/jamaoncol.2023.1891
Molti studi registrativi condotti con inibitori del checkpoint immunitario nel trattamento di prima linea dei tumori del polmone non a piccole cellule prevedevano che il trattamento, anche in assenza di progressione o tossicità inaccettabile, si fermasse dopo circa 2 anni dalla prima somministrazione.
Al di là della considerazione che questa era la schedula associata con il vantaggio di sopravvivenza dimostrato negli studi, per i pazienti che nella pratica clinica arrivano a 2 anni di trattamento con malattia controllata e con una buona tollerabilità, si pone il problema della decisione se fermarsi (come negli studi registrativi) o se proseguire indefinitamente.
Gli autori dell’analisi recentemente pubblicata da JAMA Oncology sono proprio partiti dalla considerazione che la durata ottimale del trattamento di prima linea con immunoterapia in questo setting non è conosciuta. Per provare a rispondere a questo quesito, gli autori hanno condotto un’analisi retrospettiva, basata su un database di pazienti trattati tra il 2016 e il 2020 con un trattamento di prima linea comprendente immunoterapia per tumore del polmone non a piccole cellule avanzato.
Per ovvie ragioni, l’analisi ha escluso i pazienti che avessero interrotto per progressione di malattia o decesso.
I pazienti in trattamento a 2 anni dall’inizio sono quindi stati divisi in 2 gruppi:
Endpoint principale dell’analisi era la sopravvivenza globale, partendo dai 760 giorni.
Circa 1 paziente su 5, in assenza di progressione, ha interrotto il trattamento a 2 anni circa dall’inizio.
Partendo da un totale di 1091 pazienti che erano ancora in trattamento immunoterapico a 2 anni dall’inizio, dopo aver escluso i pazienti ineleggibili, gli autori hanno identificato:
I due gruppi differivano leggermente per la storia di fumo (99% di fumatori nel gruppo che ha ricevuto trattamento di durata fissa rispetto a 93% nell’altro gruppo, p=0.01) e per la sede (il 22% dei pazienti del gruppo di durata fissa era stato trattato in un centro accademico, rispetto all’11% dell’altro gruppo, p=0.001).
La sopravvivenza globale a 2 anni a partire dai 760 giorni è risultata pari a 79% nel gruppo che ha ricevuto trattamento di durata fissa (intervallo di confidenza al 95% 66% - 87%) e pari all’81% nel gruppo che ha ricevuto trattamento di durata indefinita (intervallo di confidenza al 95% 77% - 85%).
All’analisi univariata, la differenza in outcome tra i due gruppi non è risultata statisticamente significativa (hazard ratio 1.26, intervallo di confidenza al 95% 0.77 – 2.08, p=0.36).
Anche all’analisi multivariata, la differenza in outcome tra i due gruppi non è risultata statisticamente significativa (hazard ratio 1.33; intervallo di confidenza al 95% 0.78 -2.25, p=0.29).
Sulla base dei risultati sopra sintetizzati, gli autori concludono che l’assenza di differenze statisticamente significative tra i due gruppi considerati dovrebbe rassicurare sia i pazienti che i clinici sul fatto che l’interruzione dell’immunoterapia a 2 anni non comporta ripercussioni significative sulla sopravvivenza.
Naturalmente, la risposta definitiva al quesito verrebbe da un disegno randomizzato, in cui i pazienti venissero randomizzati a proseguire indefinitamente (approccio teoricamente sperimentale) oppure a fermarsi (approccio standard corrispondente alla schedula degli studi registrativi).
Un’analisi retrospettiva ovviamente produce un’evidenza di livello inferiore, e anche la correzione per i principali fattori prognostici ottenuta con l’analisi multivariata non può paragonarsi ad un confronto randomizzato.
Se un confronto di questo tipo avesse suggerito la superiorità della durata indefinita rispetto alla durata fissa, non avremmo potuto escludere che la differenza fosse dovuta a un bias di selezione. Anche un risultato di non differenza significativa tra le due strategie rischia di non essere “conclusivo”.
Peraltro, la numerosità dei due gruppi analizzati avrebbe consentito di evidenziare differenze clinicamente rilevanti tra i due gruppi. In teoria, alcuni pazienti inseriti nel gruppo di durata fissa potrebbero aver interrotto per progressione di malattia proprio in corrispondenza dei 2 anni, ma tale bias è conservativo in quanto avrebbe sfavorito il gruppo di durata fissa.
La durata indefinita ovviamente aumenta il rischio di eventi avversi (chiaramente chi ha ben tollerato l’immunoterapia per due anni è “selezionato” per avere meno rischi anche con la prosecuzione della terapia, ma non bisogna dimenticare che il rischio di tossicità anche tardive è basso ma non del tutto trascurabile). Inoltre, la durata indefinita del trattamento ha anche una ripercussione sui costi associati alla spesa farmaceutica.
Dal punto di vista psicologico, un paziente può “soffrire” l’interruzione di un trattamento che è risultato associato, fino a quel momento, a un buon controllo di malattia, ma è altrettanto vero che negli studi registrativi quell’interruzione era parte della schedula associata a una precisa dimostrazione di efficacia, incluso il controllo a lungo termine in una minoranza di casi. Peraltro, esistono anche pazienti che sono assolutamente favorevoli a una “vacanza” terapeutica e a un’interruzione nelle somministrazioni, senza sentirsi “privati” del trattamento.