Il motto dell’ASCO 2018 invoca un’innovazione basata sulla medicina di precisione, ma un altro studio di fase III nel tumore del polmone documenta l’efficacia della combinazione di chemio e immunoterapia, senza idee chiare sulla selezione.
Socinski MA, Jotte RM, Cappuzzo F, Orlandi F, Stroyakovskiy D, Nogami N, Rodríguez-Abreu D, Moro-Sibilot D, Thomas CA, Barlesi F, Finley G, Kelsch C, Lee A, Coleman S, Deng Y, Shen Y, Kowanetz M, Lopez-Chavez A, Sandler A, Reck M; IMpower150 Study Group. Atezolizumab for First-Line Treatment of Metastatic Nonsquamous NSCLC. N Engl J Med. 2018 Jun 4. doi: 10.1056/NEJMoa1716948. [Epub ahead of print] PubMed PMID: 29863955.
Dal 2016, anno della presentazione dello studio randomizzato KEYNOTE024 di confronto tra pembrolizumab e chemioterapia con platino come trattamento di prima linea dei pazienti con tumore del polmone avanzato, i livelli di espressione di PDL1 rappresentano un marcatore importante per la selezione del miglior trattamento di prima linea in questo setting. Infatti, quando PDL1 è presente con elevata espressione a livello del tumore (maggiore o uguale al 50% delle cellule), è utile per selezionare i pazienti candidati a ricevere il trattamento immunoterapico come agente singolo, al posto della chemioterapia di prima linea.
Nei mesi scorsi, peraltro, i risultati dello studio di fase III KEYNOTE189 avevano evidenziato l’efficacia della combinazione di pembrolizumab e chemioterapia con platino come trattamento di prima linea dei pazienti con tumore del polmone non a piccole cellule, ad istologia non squamosa, in stadio avanzato, indipendentemente dal livello di espressione di PDL1.
Al meeting ASCO 2018 sono stati presentati i risultati di un altro studio randomizzato di fase III, pubblicato contemporaneamente sulle pagine del New England Journal of Medicine, che si inserisce nello stesso filone, in quanto ha sperimentato la combinazione di atezolizumab, bevacizumab e chemioterapia con platino come trattamento di prima linea di pazienti con tumore del polmone non a piccole cellule, ad istologia non squamosa. Come noto, anche se poco impiegata in Italia, la combinazione di carboplatino, paclitaxel e l’antiangiogenico bevacizumab rappresenta una possibile terapia di prima linea per questi pazienti.
Nel dettaglio, i pazienti sono stati randomizzati a ricevere:
1. Atezolizumab + carboplatino + paclitaxel (ACP);
2. Bevacizumab + carboplatino + paclitaxel (BCP);
3. Atezolizumab + bevacizumab + carboplatino + paclitaxel (ABCP).
Tutti i trattamenti erano somministrati ogni 3 settimane, per 4-6 cicli, seguiti da mantenimento con atezolizumab da solo nel braccio 1, bevacizumab da solo nel braccio 2 e atezolizumab + bevacizumab nel braccio 3.
I pazienti con oncogene addiction (mutazione di EGFR o traslocazione di ALK) erano eleggibili ma, come specificato sotto, esclusi dalle analisi degli endpoint primari.
Lo studio non prevedeva selezione per l’espressione di PDL1.
Lo studio aveva 2 endpoint primari:
1) Sopravvivenza libera da progressione (progression-free survival, PFS), valutata sia nella popolazione intention-to-treat che fosse wild-type per EGFR e ALK (cosiddetta “Wild-type” population”), sia nella popolazione WT selezionata per elevata espressione della signature molecolare legata alle cellule T effettrici (“Teff-high WT population”)
2) Sopravvivenza globale (overall survival,OS) nella popolazione Wild-type.
Lo studio era stato inizialmente disegnato per eseguire il confronto primario nell’intera popolazione in studio (inclusi quindi i casi oncogene addicted) e nel sottogruppo di pazienti con espressione presente di PDL1, poi è stato emendato per eseguire le analisi primarie, come specificato sopra, nella popolazione wild-type e nella popolazione selezionata per elevata espressione di Teff.
Il disegno dello studio prevedeva prima il confronto tra il braccio ABCP e il braccio BCP (allo scopo di quantificare l’efficacia dell’atezolizumab in aggiunta al bevacizumab e alla chemioterapia). In caso di risultato positivo, il disegno prevedeva poi il confronto tra il braccio ACP e BCP (allo scopo di quantificare l’efficacia dell’atezolizumab non in aggiunta ma in sostituzione del bevacizumab). Lo studio prevedeva un confronto gerarchico, dal momento che gli autori ritenevano che, se fosse stato negativo il confronto tra ABCP e BCP, difficilmente il braccio ACP avrebbe poi potuto essere superiore a BCP.
Nella popolazione “wild-type”, 356 pazienti sono stati assegnati al braccio ABCP, e 336 al braccio standard BCP.
La PFS è risultata significativamente migliore nel braccio ABCP rispetto al braccio BCP. Nel dettaglio, la PFS mediana è risultata pari a 8.3 mesi nel braccio ABCP e 6.8 mesi nel braccio BCP, con un hazard ratio pari a 0.62, intervallo di confidenza al 95% 0.52 – 0.74, p<0.001).
Anche nella popolazione Teff-high wild type, la PFS è risultata significativamente migliore nel braccio ABCP rispetto al braccio BCP. In particolare, la PFS mediana è risultata pari a 11.3 mesi nel braccio ABCP e 6.8 mesi nel braccio BCP, con un hazard ratio pari a 0.51, intervallo di confidenza al 95% 0.38 – 0.68, p<0.001).
La PFS è risultata significativamente migliore nel braccio ABCP rispetto al braccio BCP anche nella intera popolazione randomizzata (compresi quindi i pazienti EGFR o ALK positivi esclusi dall’analisi primaria), e nel sottogruppo di pazienti con espressione bassa o assente di PDL1, nonché nel sottogruppo di pazienti con bassa espressione della signature di Teff, e nel sottogruppo di pazienti con metastasi epatiche.
La sopravvivenza globale è risultata significativamente prolungata nel braccio ABCP rispetto al braccio BCP: nel dettaglio, la OS mediana è risultata pari a 19.2 mesi vs. 14.2 mesi, hazard ratio 0.78, intervallo di confidenza al 95% 0.64 – 0.96, p=0.02).
Non sono ancora presentati i risultati del confronto ACP vs BCP (atezolizumab in alternativa e non in aggiunta al bevacizumab).
Lo studio presentato all’ASCO e simultaneamente pubblicato sulle pagine del New England Journal of Medicine segna un altro punto a favore di quella che, un paio di mesi fa, in occasione della pubblicazione dello studio KEYNOTE189 con la combinazione di pembrolizumab e chemioterapia, abbiamo definito su Oncotwitting “la medicina di imprecisione”.
Infatti, anche in questo studio si ottiene, in una popolazione di pazienti con tumore del polmone ad istologia non squamosa, non selezionati per alcuna caratteristica molecolare, un significativo vantaggio in sopravvivenza globale e sopravvivenza libera da progressione con l’impiego della combinazione di chemioterapia e immunoterapia. Il “pacchetto” sperimentato nello studio di Roche comprende anche il bevacizumab, e il confronto presentato (ABCP vs BCP) “quantifica” l’efficacia dell’aggiunta di atezolizumab, ma non “quantifica” il reale contributo del bevacizumab, oggetto invece del confronto programmato tra i bracci ACP e BCP.
Gli studi recentemente pubblicati provano, da una parte, a imboccare la strada della “medicina di precisione”, sperimentando la predittività di marcatori alternativi all’espressione di PDL1 (come la gene signature Teff nel caso dell’atezolizumab o il mutational burden nel caso degli studi condotti con nivolumab e ipilimumab). D’altra parte, tali studi danno un messaggio di efficacia di combinazioni di trattamento in popolazioni non selezionate, che ribadisce che la strada da percorrere per una reale personalizzazione del trattamento appare, in questo setting, ancora lunga.
Si tratta di studi disegnati per “massimizzare” il numero di potenziali candidati all’immunoterapia in prima linea, e che di fatto “rischiano” di massimizzare il numero di potenziali candidati a un approccio di combinazione “one size fits all”: chemioterapia, immunoterapia, e in questo specifico caso anche il bevacizumab. Meditate, gente, meditate.