Patologia polmonare
Lunedì, 18 Novembre 2024

Ha senso che un precedente tumore sia un criterio di esclusione per uno studio clinico? Probabilmente no…

A cura di Massimo Di Maio

Un’analisi di real-world dimostra che il beneficio di un trattamento sperimentale può riprodursi sia nei pazienti che non avevano una precedente diagnosi di un altro tumore, sia in quelli che la avevano e in molti casi sarebbero stati esclusi da una sperimentazione clinica. Si tratta di un invito a ripensare un frequente criterio di esclusione, per offrire la chance sperimentale al maggior numero possibile di soggetti.

Ayoade, Oluwaseun et al. Brief Report: Should a prior cancer history be reevaluated as an exclusion for clinical trial participation? Lung Cancer, Volume 0, Issue 0, 108032

Gli studi clinici sono spesso disegnati per ridurre al minimo i fattori in grado di influenzare i risultati, in aggiunta alla patologia oggetto dello studio e ai trattamenti specifici in sperimentazione.

Pertanto, i pazienti con una precedente storia di cancro sono in genere esclusi dagli studi (tranne che per alcuni tipi di tumore dalla prognosi largamente favorevole, oppure quelli diagnosticati un certo numero di anni prima dell’inserimento nello studio. Nella pratica clinica, in realtà, molti pazienti hanno un secondo tumore.

Gli autori del “brief report” pubblicato da Lung Cancer sottolineano che l’esclusione di pazienti con un precedente cancro potrebbe potenzialmente influenzare la generalizzabilità dei risultati dello studio, poiché i sopravvissuti al cancro possono differire dai pazienti con una prima diagnosi oncologica nel comportamento del tumore, nella tollerabilità del trattamento o nell'efficacia della terapia.

Per discutere l’argomento e comprendere l’associazione tra una precedente diagnosi oncologica e l’efficacia del trattamento sperimentale, gli autori hanno tentato di creare, basandosi su un database di pazienti trattati nel mondo reale, una riproduzione della popolazione di pazienti con tumore del polmone non a piccole cellule (NSCLC) in stadio III o IV inclusa in recenti studi di immunoterapia.

A tale scopo, sono stati selezionati nel National Cancer Database i pazienti con NSCLC diagnosticati tra il 2017 e il 2020, che avessero ricevuto qualsiasi trattamento (immunoterapia, chemioterapia, radioterapia o intervento chirurgico definitivo). I pazienti in stadio clinico III e IV sono stati stratificati in base alla presenza o assenza di una precedente storia di cancro.

Allo scopo di “simulare” il confronto tra il braccio sperimentale e il braccio di controllo degli studi che avevano dimostrato il beneficio dell’immunoterapia nella malattia localmente avanzata (mantenimento con durvalumab) e nella malattia metastatica (aggiunta dell’immunoterapico alla chemioterapia), gli autori hanno diviso i pazienti del real world in due gruppi, vale a dire trattati con immunoterapia e non trattati con immunoterapia. I pazienti sono stati “matchati” in rapporto 1:1 con la metodica del propensity score, in base alle seguenti caratteristiche: sesso, razza/etnia, stato assicurativo, età, reddito medio della zona di residenza, tipo di struttura e regione del paese in cui hanno ricevuto il trattamento.

Endpoint primario dell’analisi era la sopravvivenza globale, analizzata mediante il metodo di Kaplan Meier .

Nel setting di malattia localmente avanzata, l'aggiunta dell'immunoterapia a un regime di chemioterapia e radioterapia è stata associata a una sopravvivenza superiore indipendentemente dal fatto che i pazienti con NSCLC in stadio III avessero una precedente storia di neoplasia.

Nel dettaglio, il vantaggio a favore dell’immunoterapia è stato riportato sia nei pazienti con una pregressa storia di cancro (hazard ratio 0.65, intervallo di confidenza al 95% 0.59 – 0.71), sia nei pazienti che non avevano una storia di cancro (hazard ratio 0.69, intervallo di confidenza al 95% 0.66 – 0.72).

Nel setting di malattia metastatica, l'aggiunta dell'immunoterapia è risultata associata a un vantaggio in sopravvivenza globale indipendentemente dal fatto che i pazienti in stadio IV avessero una pregressa storia di tumore.

Nel dettaglio, il vantaggio a favore dell’immunoterapia è stato riportato sia nei pazienti con una pregressa storia di cancro (hazard ratio 0.78, intervallo di confidenza al 95% 0.72 – 0.85), sia nei pazienti che non avevano una storia di cancro (hazard ratio 0.75, intervallo di confidenza al 95% 0.73 – 0.78).

Sulla base dei risultati sopra sintetizzati, gli autori concludono che la loro analisi di dati di real world ha evidenziato che un trattamento efficace può dimostrare tale efficacia anche nei pazienti che abbiano avuto una precedente diagnosi di un’altra neoplasia.

Naturalmente, gli autori riconoscono che la loro analisi presenta molti limiti: i pazienti erano classificati sulla base della presenza o assenza di un precedente secondo tumore indipendentemente dal tipo, dallo stadio e dal tempo intercorso tra le diagnosi.

I pazienti con una precedente diagnosi oncologica possono essere in realtà molto eterogenei: un conto è l’aver avuto molti anni prima un tumore praticamente guarito, un conto è ricevere una diagnosi sincrona di un’altra neoplasia nella fase di diagnosi e stadiazione di un tumore. Nel primo caso è chiaro a tutti che la precedente diagnosi non ha alcun impatto significativo sulla prognosi del paziente e quindi sulla valutazione dell’efficacia del trattamento che sarà intrapreso, mentre nel secondo caso le cose potrebbero essere molto diverse.

Con i suddetti limiti, il merito dell’articolo pubblicato da Lung Cancer è quello di richiamare l’attenzione su un tema spesso discusso in questi anni, vale a dire quello dei criteri di inclusione e di esclusione nelle sperimentazioni cliniche, a volte troppo restrittivi. Tale tematica, non solo rispetto alla precedente diagnosi di un altro tumore, ma anche rispetto ad altre variabili (ad esempio il performance status, la presenza di metastasi encefaliche, la presenza di alcune patologie concomitanti, come quelle cardiovascolari) è stata oggetto in anni recenti di un vivace dibattito scientifico, che in alcuni casi ha esplicitamente coinvolto anche le autorità regolatorie.

La tematica è complessa: allargare i criteri di eleggibilità, rendendoli meno restrittivi, consente di offrire l’opportunità della sperimentazione clinica al maggior numero possibile di soggetti, e aumenta la generalizzabilità dei risultati. D’altra parte, includere pazienti con patologie che potrebbero significativamente condizionare la prognosi indipendentemente dall’efficacia del trattamento in studio rischia di diluire l’eventuale dimostrazione di efficacia del trattamento sperimentale.

Come sempre, bisogna applicare buon senso, e probabilmente limitare l’esclusione alle sole condizioni che veramente pesano prognosticamente più della patologia oggetto di studio. Negli ultimi anni, ad esempio, in molti studi è stato ristretto l’intervallo temporale di diagnosi del precedente tumore (es. 2 anni invece che 5) che rappresenta un criterio di esclusione per la sperimentazione clinica.