Lo studio Lung-MAP, condotto nei pazienti con tumore del polmone squamoso, ha affiancato risorse pubbliche e private per testare numerosi farmaci nell’ambito dello stesso protocollo. I risultati dicono che la strada è ancora lunga, ma il metodo è promettente.
Mary W Redman,Vassiliki A Papadimitrakopoulou,Katherine Minichiello,Fred R Hirsch,Philip C Mack,Lawrence H Schwartz,Everett Vokes,Suresh Ramalingam,Natasha Leighl,Jeff Bradley,Jieling Miao,James Moon,Louise Highleyman,Crystal Miwa,Michael L LeBlanc, Shakun Malik, Vincent A Miller, Ellen V Sigal, Stacey Adam, David Wholley, Caroline Sigman, Beverly Smolich, Charles D Blanke, Karen Kelly, David R Gandara, Roy S Herbst. Biomarker-driven therapies for previously treated squamous non-small-cell lung cancer (Lung-MAP SWOG S1400): a biomarker-driven master protocol. The Lancet Oncology. Available online 27 October 2020
Negli ultimi anni abbiamo assistito ad una importante evoluzione della metodologia delle sperimentazioni cliniche condotte nei pazienti oncologici.
Al posto della classica selezione dei pazienti basata sul solo organo d’origine e sulla rispettiva istologia tumorale, sono stati disegnati studi “basket” (vale a dire studi condotti con un farmaco selezionando i pazienti sulla base della presenza di un target molecolare, in tipi diversi di tumori) o studi “umbrella” (vale a dire studi condotti con più farmaci ciascuno dei quali impiegato sulla base della presenza del rispettivo target). Il concetto di “master protocol” evidenzia l’opportunità di prevedere, nell’ambito di un medesimo protocollo sperimentale, più trattamenti sperimentali, con una analisi basale delle caratteristiche molecolari del singolo tumore, che rappresenti quindi per il paziente l’opportunità di ricevere uno tra diversi trattamenti, sula base delle caratteristiche molecolari.
Il Lung Cancer Master Protocol (Lung-MAP; S1400) è stato disegnato proprio come “master protocol” biomarker-driven, vale a dire basato sulla caratterizzazione molecolare del tumore, specificamente per il tumore del polmone ad istologia squamosa. A differenza delle notevoli innovazioni terapeutiche a cui abbiamo assistito negli ultimi anni nell’adenocarcinoma, grazie all’identificazione di numerosi target molecolari e alla disponibilità dei relativi farmaci a bersaglio, le novità in tema di trattamenti personalizzati nel tumore squamoso sono state deludenti. A buon diritto, quindi, questo setting può essere definito un “unmet need”: nessun trattamento di provata efficacia al di là della “classica” chemioterapia e dell’immunoterapia.
Lo studio è stato il primo “master procotol” di questo tipo avviato da parte del National Cancer Institute (NCI) statunitense. La stesura e la conduzione del protocollo si sono basate su una partnership pubblico-privato, che ha coinvolto, nell’ambito del National Clinical Trials Network dell’NCI, varie aziende farmaceutiche.
Lo studio prevedeva l’inclusione di pazienti adulti, affetti da tumore del polmone non a piccole cellule, ad istologia squamosa, con malattia recidiva o metastatica, precedentemente trattati con chemioterapia contenente platino e con un ECOG performance status compreso tra 0 e 2.
Lo studio prevedeva uno screening molecolare basato sull’impiego del test FoundationOne (Foundation Medicine, Cambridge, MA, USA), basato su tecnica di next-generation sequencing del tessuto tumorale.
La parte clinica prevedeva la conduzione di diversi sotto-studi, alcuni “biomarker-driven”, vale a dire legati alla presenza di una specifica alterazione molecolare, e altri “non-match”, vale a dire impiegando trattamenti che non prevedevano selezione per uno specifico target, e che quindi consentivano l’inclusione dei pazienti non eleggibili per i sottostudi “biomarker-driven”.
Lo studio consentiva un eventuale pre-screening (durante la precedente linea di trattamento), e al momento della progressione di malattia il paziente veniva incluso e assegnato al braccio di trattamento sulla base delle caratteristiche molecolari. In alternativa, il paziente poteva essere screenato direttamente al momento della progressione di malattia.
I sottostudi “biomarker-driven” valutavano il taselisib (inibitore di PIK3CA ), il palbociclib (inibitore di CDK 4-6), AZD4547 (inibitore di FGFR ), rilotumumab + erlotinib (in caso di alterazione di MET), talazoparib (PARP inibitore), e telisotuzumab vedotin (MET).
I sottostudi “non-match” hanno invece valutato il durvalumab, oppure la combinazione di nivolumab + ipilimumab in caso di malattia naive al trattamento immunoterapico, e durvalumab + tremelimumab in caso di malattia in progressione dopo un precedente trattamento immunoterapico.
Tra il giugno 2014 e il gennaio 2019, sono stati inseriti in studio 1864 pazienti, e in 1841 (pari al 99%) è stato raccolto il tessuto per l’analisi molecolare. 1674 pazienti (pari al 91%) hanno ottenuto una caratterizzazione molecolare informativa, e 1404 pazienti (pari all’84%) sono stati assegnati a uno dei sottostudi. Quasi la metà (46.7%) dei pazienti potenzialmente assegnati a un sottostudio è stato poi effettivamente incluso.
Nell’analisi congiunta dei vari sottostudi, è stata osservata una risposta obiettiva in 10 pazienti sui 143 trattati nei sottostudi biomarker-driven (pari al 7.0%), in 53 dei 315 pazienti trattati con immunoterapia e naive al trattamento immunoterapico (pari al 16.8%), e in 3 pazienti dei 56 trattati con docetaxel come trattamento di seconda linea.
La sopravvivenza mediana è risultata pari a 5.9 mesi (intervallo di confidenza al 95% 4.8–7.8) nel gruppo di pazienti “biomarker-driven”, 7.7 mesi (intervallo di confidenza al 95% 6.7 – 9.2) nel gruppo trattato con docetaxel, e 10.8 mesi (intervallo di confidenza 9.4–12.3) nel gruppo trattato con immunoterapia.
La sopravvivenza libera da progressione mediana è risultata pari a 2.5 mesi (intervallo di confidenza al 95% 1.7-2.8) nel gruppo di pazienti “biomarker-driven”, 2.7 mesi (intervallo di confidenza al 95% 1.9 – 2.9) nel gruppo trattato con docetaxel, e 3.0 mesi (intervallo di confidenza 2.7 – 3.9) nel gruppo trattato con immunoterapia.
Il numero di pazienti inserito in studio, e poi effettivamente trattato, nell’ambito del master protocol dimostra la fattibilità di un modello di sperimentazione clinica tutt’altro che convenzionale.
La conduzione dello studio, che prevedeva la valutazione di numerosi trattamenti sperimentali, ha coinvolto in parallelo, nell’ambito di un’unica piattaforma, diverse aziende farmaceutiche (AbbVie, Amgen, AstraZeneca, Bristol Myers Squibb, Genentech, Pfizer). Al di là del risultato osservato, il metodo applicato rappresenta un’importante dimostrazione dell’opportunità e della fattibilità della collaborazione tra pubblico e privato in ambito di ricerca clinica.
Se guardiamo al risultato dal punto di vista dell’outcome osservato, lo studio non è stato entusiasmante: modesta la percentuale di risposte obiettive, modesta la sopravvivenza libera da progressione e modesta la sopravvivenza globale. Naturalmente, questo risultato è fortemente dipendente dal tipo di farmaci in studio, e sicuramente i farmaci testati nei sottostudi “biomarker-driven” suggeriscono che probabilmente quei target hanno un ruolo meno cruciale nella biologia del tumore rispetto a molti target che in questi anni abbiamo imparato a conoscere (e trattare) nell’adenocarcinoma. Lo sottolinea molto bene Martin Schuler nell’editoriale che accompagna la pubblicazione dello studio, sottolineando che la fase di selezione dei trattamenti sperimentali deve essere basata su un forte razionale preclinico.
Il tumore squamoso rimane un unmet need, dunque, dal punto di vista dei trattamenti a bersaglio, ma questo non sconfessa l’utilità e l’importanza di un progetto come il Lung MAP, anzi incoraggia a condurre altri studi, con altri farmaci. Il diffondersi sempre maggiore dell’impiego di tecniche di next generation sequencing, rispetto all’analisi di una singola alterazione molecolare, rappresenta il presupposto ideale per sviluppare questo approccio “olistico” non solo dal punto di vista delle analisi diagnostiche, ma anche dal punto di vista dell’offerta terapeutica, come appunto realizzabile nell’ambito di una piattaforma sperimentale tipo Lung MAP.
In uno studio classico, in presenza di una alterazione molecolare rara, il rischio è che solo l’1%, o il 5%, o comunque una piccola proporzione dei pazienti screenati sia eleggibile, magari dopo aver atteso l’esito per varie settimane. Una sperimentazione come questa, invece, consente di offrire una chance sperimentale (sia essa “biomarker-driven” o “non-match”) ad una elevata percentuale dei casi screenati.