Patologia polmonare
Sabato, 03 Giugno 2017
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Radioterapia e immunoterapia, un matrimonio che s’ha da fare?

A cura di Massimo Di Maio

Dopo decine di pubblicazioni che suggeriscono un effetto potenziante della radioterapia sull’efficacia dell’immunoterapia, ulteriori dati (interessanti ma da considerare generatori di ipotesi) sono ora pubblicati su Lancet Oncology.

Narek Shaverdian, Aaron E Lisberg, Krikor Bornazyan, Darlene Veruttipong, Jonathan W Goldman, Silvia C Formenti, Edward B Garon, Percy Lee, Previous radiotherapy and the clinical activity and toxicity of pembrolizumab in the treatment of non-small-cell lung cancer: a secondary analysis of the KEYNOTE-001 phase 1 trial, The Lancet Oncology, Available online 24 May 2017, ISSN 1470-2045, https://doi.org/10.1016/S1470-2045(17)30380-7.

Numerosi studi preclinici e preliminari evidenze hanno suggerito, negli ultimi anni, che la radioterapia possa potenziare l’effetto antitumorale degli immune checkpoint inhibitors. In poche parole, l’irradiazione di una o più sedi tumorali sarebbe associata alla distruzione delle cellule e quindi al rilascio e all’esposizione di un maggior numero di antigeni tumorali, con conseguente stimolazione della risposta immunitaria.

Shaverdian e colleghi, nell’articolo pubblicato su Lancet Oncology il 24 maggio, hanno valutato l’associazione tra la precedente esposizione alla radioterapia e l’attività e la tollerabilità di pembrolizumab, anticorpo monoclonale anti-PD1, in una serie di pazienti con tumore del polmone non a piccole cellule (NSCLC) avanzato.

Lo studio si è basato sui dati dei pazienti con NSCLC avanzato trattati nell’ambito dello studio di fase I KEYNOTE-001, presso un singolo centro (University of California, Los Angeles, CA, USA).
I pazienti avevano un performance status secondo la scala ECOG pari a 0 o 1, e non dovevano avere storia di polmonite. Il pembrolizumab era somministrato alla dose di 2 mg/kg oppure 10 mg/kg ogni 3 settimane, oppure alla dose di 10 mg/kg ogni 2 settimane, fino a progressione di malattia, tossicità inaccettabile o altre cause di interruzione del trattamento.

L’attività del trattamento era misurata in base ai criteri Immune-related Response Criteria.

Obiettivo primario dello studio KEYNOTE-001 era la valutazione della tollerabilità, della sicurezza e dell’attività del pembrolizumab.

Per l’analisi secondaria oggetto della presente pubblicazione, i pazienti sono stati divisi in 2 gruppi: coloro che avevano precedentemente ricevuto radioterapia e coloro che non l’avevano ricevuta.

Obiettivo principale dell’analisi era la descrizione dell’associazione tra la precedente radioterapia e la sopravvivenza libera da progressione (progression-free survival, PFS), la sopravvivenza globale (overall survival, OS) e la tossicità polmonare.

Complessivamente, presso il centro erano stati arruolati e trattati con pembrolizumab 98 pazienti (tra il maggio 2012 e il luglio 2014), dei quali uno è stato escluso dalle analisi perché perso al follow-up.
Dei 97 pazienti valutabili, 42 soggetti (pari al 43%) avevano ricevuto radioterapia prima dell’inserimento nello studio. Nel dettaglio, 38 pazienti (pari al 39%) avevano ricevuto radioterapia in sedi extracraniche, e 24 (pari al 25%) avevano ricevuto radioterapia toracica.

Le analisi presentate nella pubblicazione si basano su un follow-up mediano pari a 32.5 mesi.

La sopravvivenza libera da progressione è risultata significativamente più lunga nel gruppo di pazienti precedentemente esposti a radioterapia su qualunque sede (hazard ratio 0.56, intervallo di confidenza al 95% 0.34–0.91, p=0.019). La PFS mediana era pari a 4.4 mesi nei soggetti precedentemente esposti a radioterapia rispetto a 2.1 mesi nei soggetti che non lo erano stati.

Dividendo i pazienti in base alla precedente somministrazione di radioterapia extracranica, si confermava il prolungamento significativo della PFS in chi avesse ricevuto radioterapia prima del pembrolizumab (hazard ratio 0.50, intervallo di confidenza al 95% 0.30 –0.84, p=0.0084); la PFS mediana era pari a 6.3 mesi rispetto a 2.0 mesi.

La sopravvivenza globale è risultata significativamente più lunga nel gruppo di pazienti precedentemente esposti a radioterapia su qualunque sede (hazard ratio 0.58, intervallo di confidenza al 95% 0.36–0.94, p=0.026). La OS mediana era pari a 10.7 mesi nei soggetti precedentemente esposti a radioterapia rispetto a 5.3 mesi nei soggetti che non lo erano stati.

Dividendo i pazienti in base alla precedente somministrazione di radioterapia extracranica, si confermava il prolungamento significativo della OS in chi avesse ricevuto radioterapia prima del pembrolizumab (hazard ratio 0.59, intervallo di confidenza al 95% 0.36 –0.96, p=0.034); la OS mediana era pari a 11.6 mesi rispetto a 5.3 mesi.

Per quanto riguarda l’analisi della tossicità polmonare, gli autori descrivono un’incidenza maggiore di tossicità polmonare di qualsiasi grado nel gruppo precedentemente esposto alla radioterapia toracica (15 / 24 pazienti, pari al 63%, rispetto a 29 / 73, pari al 40%). Considerando i soli eventi polmonari giudicati associati al trattamento, sono stati 3 (13%) nel gruppo trattato con radioterapia toracica, rispetto a 1 solo (1%) nel gruppo non pretrattato. La frequenza di eventi polmonari severi è stata molto bassa e simile in entrambi i gruppi (1%).

Sulla base dei risultati presentati, gli autori enfatizzano che l’analisi conferma quanto già suggerito da decine di precedenti segnalazioni precliniche e cliniche, vale a dire la potenzialità da parte del trattamento radioterapico di incrementare l’efficacia della successiva immunoterapia, senza peggiorare la tossicità in maniera inaccettabile.

Senza dubbio, un’analisi post hoc di questo tipo rappresenta un’evidenza debole, ma la consistenza delle evidenze esistenti in letteratura rende sicuramente interessante il filone di ricerca che mira a combinare radioterapia e trattamento sistemico immunoterapico al fine di potenziarne l’efficacia.

Ovviamente, non trattandosi di uno studio randomizzato ma di un’analisi post hoc di uno studio di fase I, i gruppi confrontati dagli autori (pazienti precedentemente esposti a radioterapia vs. pazienti non precedentemente esposti) non sono necessariamente confrontabili in termini di prognosi, e questo introduce un bias nel confronto. Come gli autori stessi riconoscono nella discussione, i soggetti precedentemente pretrattati con radioterapia avevano un intervallo più lungo tra la diagnosi e l’inizio della terapia con pembrolizumab, compatibile quindi con un andamento più “indolente” di malattia, e questo potrebbe aver favorito intrinsecamente, in termini di PFS e OS, il gruppo che aveva ricevuto radioterapia.

Con tali limiti, siamo d’accordo con gli autori quando enfatizzano il ruolo di “generazione di ipotesi” dei propri risultati, auspicando la conduzione di studi prospettici che consentano di documentare, con un adeguato disegno di studio, l’effetto positivo della radioterapia sull’outcome dei pazienti con neoplasia avanzata candidati a ricevere trattamento sistemico con immunoterapia.