Un’analisi di 6 studi randomizzati conferma che, mediamente, chi sviluppa una neutropenia durante il trattamento chemioterapico ha anche una migliore aspettativa di vita. Questa associazione sottolinea l’imprecisione della modalità di calcolo della dose dei farmaci, ma di fatto non ha implicazioni pratiche.
Gargiulo P, Arenare L, Gridelli C, Morabito A, Ciardiello F, Gebbia V, Maione P, Spagnuolo A, Palumbo G, Esposito G, Della Corte CM, Morgillo F, Mancuso G, Di Liello R, Gravina A, Schettino C, Di Maio M, Gallo C, Perrone F, Piccirillo MC. Chemotherapy-induced neutropenia and treatment efficacy in advanced non-small-cell lung cancer: a pooled analysis of 6 randomized trials. BMC Cancer. 2021 May 14;21(1):549. doi: 10.1186/s12885-021-08323-4. PMID: 33985435; PMCID: PMC8120920.
E’ noto che, a parità di dose somministrata, le concentrazioni biologiche dei farmaci, inclusi i farmaci chemioterapici, possono essere molto diverse da paziente a paziente. La gran parte dei farmaci citotossici viene somministrata a un dosaggio proporzionale alla superficie corporea, sulla base del dosaggio che, negli studi di fase I, ha dimostrato di non produrre tossicità inaccettabile nella maggior parte dei pazienti. Questo comporta che, con quel dosaggio, molti pazienti potrebbero in realtà ricevere una dose biologica potenzialmente bassa, con una “sicura” tollerabilità ma con una potenziale riduzione dell’efficacia.
Più di uno studio ha suggerito un ruolo prognostico per la neutropenia indotta dal trattamento chemioterapico (chemotherapy-induced neutropenia, CIN), evidenziando una miglior sopravvivenza per i pazienti che riportino una diminuzione del valore dei globuli bianchi a riprova del raggiungimento di una dose biologica attiva dei farmaci citotossici.
Nel 2005, il medesimo gruppo del lavoro ora pubblicato su BMC Cancer aveva pubblicato su Lancet Oncology un’analisi condotta sui pazienti con tumore del polmone non a piccole cellule inseriti in 3 studi randomizzati, tra il 1996 ed il 2001. Quell’analisi aveva evidenziato un ruolo prognostico della neutropenia indotta dalla chemioterapia, con una sopravvivenza globale significativamente migliore per i pazienti che sviluppavano neutropenia rispetto a quelli che non la sviluppavano.
L’attuale analisi, disegnata per confermare quei risultati su una casistica di pazienti trattati in altri studi, è stata concepita post hoc ed è stata basata sui dati raccolti prospetticamente in 6 studi clinici randomizzati di fase III, tutti condotti in pazienti con tumore del polmone non a piccole cellule avanzato, nel periodo tra il 2002 e il 2016.
Considerato l’obiettivo dell’analisi, i pazienti che non avevano mai iniziato il trattamento chemioterapico e i pazienti per i quali erano mancanti i dati di tossicità sono stati esclusi dalla terapia.
I pazienti sono stati divisi in categorie sulla base del peggior grado di neutropenia riportato durante il trattamento chemioterapico: assente (grado 0), leggero (grado 1 o grado 2) e severo (grado 3 o grado 4).
Endpoint primario dell’analisi era la sopravvivenza globale, analizzata sia mediante analisi univariata, con le classiche curve di Kaplan Meier, sia mediante analisi multivariata, inserendo nel modello di Cox i fattori prognostici potenzialmente rilevanti.
Allo scopo di evitare che il risultato eventualmente favorevole nel gruppo con neutropenia fosse attribuibile al bias legato al maggior rischio di tossicità in chi riceve un maggior numero di cicli di chemioterapia, analogamente all’analisi pubblicata nel 2005 i pazienti sono stati divisi in 2 gruppi di analisi: nell’analisi principale (landmark), sono stati inseriti solo i pazienti che avessero ricevuto tutti i 6 cicli pianificati di trattamento chemioterapico, e che fossero vivi a 180 giorni dalla randomizzazione.
Nell’analisi secondaria (out-of-landmark) sono stati inseriti tutti gli altri pazienti, vale a dire quelli che avessero interrotto il trattamento chemioterapico prima del completamento dei 6 cicli, o che fossero deceduti entro i 180 giorni dalla randomizzazione.
Complessivamente sono stati inseriti nell’analisi 1529 pazienti. Nel dettaglio, 572 pazienti sono risultati eleggibili per il gruppo landmark (avendo ricevuto 6 cicli ed essendo vivi a distanza di 180 giorni dalla randomizzazione).
Nell’ambito del gruppo landmark, 143 pazienti (pari al 25.0%) hanno riportato una neutropenia severa (grado 3 o grado 4) e 135 pazienti (pari al 23.6%) hanno riportato una neutropenia di grado 1 o grado 2.
Nel gruppo landmark, la sopravvivenza mediana è risultata pari a 17.0 mesi nei pazienti senza neutropenia, 15.7 mesi nei pazienti con neutropenia lieve, 19.6 mesi nei pazienti con neutropenia severa.
All’analisi multivariata nel gruppo landmark, la neutropenia indotta dalla chemioterapia è risultata significativamente associata alla sopravvivenza globale, in particolare la neutropenia severa (hazard ratio 0.71; intervallo di confidenza al 95% 0.53-0.95), mentre non è risultata significativa l’associazione con la sopravvivenza della neutropenia lieve (hazard ratio 1.21; intervallo di confidenza al 95%C 0.92-1.58).
L’analisi del gruppo non-landmark ha prodotto risultati simili. In tale gruppo, la sopravvivenza mediana è risultata pari a 5.2 mesi nei pazienti senza neutropenia, 8.4 mesi nei pazienti con neutropenia lieve, 7.7 mesi nei pazienti con neutropenia severa. All’analisi multivariata sia la neutropenia lieve (hazard ratio 0.51, intervallo di confidenza al 95% 0.40 – 0.66) che la neutropenia severa (hazard ratio 0.64, intervallo di confidenza al 95% 0.50 – 0.81) sono risultate associate significativamente a una migliore sopravvivenza.
L’analisi ha confermato un’associazione significativa tra la neutropenia e la sopravvivenza globale in pazienti affetti da tumore del polmone che ricevono un trattamento chemioterapico.
Il concetto che, a parità di dose somministrata, a causa di differenze nella farmacocinetica la dose biologicamente attiva dei farmaci possa essere molto diversa è stato suggerito e confermato da molte analisi.
Quindici anni fa, quando realizzammo l’analisi basata sugli studi ELVIS, MILES e GEMVIN, pubblicata su Lancet Oncology, speravamo che questa osservazione potesse tradursi nel razionale di un approccio “interventistico”, nel quale usare la neutropenia come marker di efficacia, eventualmente incrementando la dose dei farmaci in caso di assenza di tossicità con la dose iniziale.
Questo approccio, sicuramente affascinante perché non si limiterebbe a”fotografare” la prognosi ma potrebbe potenzialmente migliorare l’outcome dei pazienti, è rimasto purtroppo teorico. Alcuni studi hanno provato a sperimentare l’efficacia del “toxicity-adjusted dosing”, ma nei fatti la strategia non ha prodotto evidenze sufficienti a modificare la pratica clinica.
Il dosaggio della chemioterapia, basato sulla superficie corporea, è necessariamente impreciso e comporta eterogeneità nell’attività biologica dei farmaci da paziente a paziente. La gran parte dei farmaci a bersaglio molecolare, introdotti nella pratica clinica negli ultimi anni, sono somministrati a dose fissa, e quindi potenzialmente esposti alla medesima problematica.
Esiste una letteratura, abbastanza ricca, che ha studiato l’associazione tra l’insorgenza di tossicità e l’outcome dei pazienti oncologici sottoposti a trattamenti sistemici: non solo neutropenia, ma ad esempio tossicità cutanea, ipertensione, tossicità immuno-mediate nel caso dei farmaci immunoterapici.
Si tratta di studi affascinanti, per i quali si pone sempre il problema dell’eventuale ricaduta pratica , interventistica, oltre al “mero” ruolo prognostico dimostrato dall’insorgere della tossicità.
Per evitare un ovvio bias legato all’aspettativa di vita necessariamente migliore di chi riceve il trattamento più a lungo, ed è quindi potenzialmente più esposto al rischio di sviluppare tossicità, le analisi di questo tipo non possono limitarsi a confrontare l’aspettativa di vita dei pazienti che non hanno sviluppato tossicità con l’aspettativa di vita dei pazienti che, in un qualunque momento del trattamento, l’hanno sviluppata. Tale confronto sovrastimerebbe inevitabilmente l’associazione tra eventi avversi e outcome. Al contrario, è opportuno che le analisi vengano condotte considerando la tossicità una variabile tempo-dipendente (in un modello che quindi tiene conto anche del tempo di effettiva insorgenza della tossicità e non si limita a dividere i pazienti in 2 gruppi secondo la variabile dicotomica tossicità sì o no). In alternativa, un’analisi che diminuisce il bias è l’analisi landmark, che consiste nell’eliminare la differenza nella lunghezza di esposizione al trattamento tra chi ha avuto tossicità e chi non l’ha avuta, scegliendo un tempo (ad esempio 180 giorni nel caso dello studio che stiamo commentando), escludendo dall’analisi i pazienti che avessero interrotto il trattamento o che fossero deceduti prima dei 180 giorni.