Uno studio retrospettivo giapponese si aggiunge alla lista di lavori che indagano l’associazione tra tossicità ed efficacia dei trattamenti antitumorali. Questa volta l’analisi è nei pazienti con epatocarcinoma trattati con atezolizumab e bevacizumab. Ma i problemi metodologici non mancano…
Taito Fukushima, Manabu Morimoto, Satoshi Kobayashi, Makoto Ueno, Haruki Uojima, Hisashi Hidaka, Chika Kusano, Makoto Chuma, Kazushi Numata, Kota Tsuruya, Yoshitaka Arase, Tatehiro Kagawa, Nobuhiro Hattori, Hiroki Ikeda, Tsunamasa Watanabe, Katsuaki Tanaka, Shin Maeda, Association Between Immune-Related Adverse Events and Survival in Patients with Hepatocellular Carcinoma Treated With Atezolizumab Plus Bevacizumab, The Oncologist, 2023;, oyad090, https://doi.org/10.1093/oncolo/oyad090
Come noto, negli ultimi anni la combinazione dell’immunoterapico atezolizumab (anticorpo monoclonale anti-PD-L1) e dell’antiangiogenico bevacizumab è diventata il trattamento di prima linea per i pazienti affetti da epatocarcinoma avanzato.
Non solo con l’immunoterapia, ma anche con la chemioterapia e i farmaci a bersaglio molecolare, in tutti i tumori, c’è sempre stato grande interesse nello studiare la relazione tra l’insorgenza di tossicità e l’efficacia del trattamento. La tossicità è predittiva di maggiore efficacia? Con la chemioterapia e con i farmaci a bersaglio molecolare, si è ipotizzato che la tossicità dimostri l’ottenimento di dosi biologicamente efficaci; nel caso del trattamento immunoterapico, la comparsa di tossicità documenterebbe l’attivazione del sistema immunitario, rappresentando quindi la premessa per l’efficacia del trattamento.
Come già spiegato in passato su Oncotwitting, analizzare la relazione tra tossicità ed efficacia non è facile, in quanto c’è il rischio di bias metodologici (https://www.oncotwitting.it/immunoterapia/i-dati-del-real-world-rispetto-agli-studi-registrativi-non-contrapposti-ma-complementari#top_tab_acc1). Dal momento che la tossicità non è una variabile “basale”, ma capita durante il trattamento (a volte anche molto tempo dopo l’inizio del trattamento), il confronto tra pazienti con tossicità e pazienti senza tossicità in termini di sopravvivenza globale è viziato da bias, nel senso che i pazienti che hanno avuto tossicità devono aver ricevuto il trattamento sufficientemente a lungo per sviluppare la tossicità (“immortal time bias”).
Gli autori dell’articolo pubblicato su The Oncologist hanno analizzato l’associazione tra tossicità ed outcome in una serie di pazienti affetti da epatocarcinoma avanzato, trattati con la combinazione di atezolizumab e bevacizumab, in Giappone.
I pazienti sono stati analizzati sia confrontando chi aveva avuto eventi avversi di qualunque grado rispetto a chi non li aveva avuti, sia dividendo i pazienti a seconda della severità dell’evento avverso (grado 1-2 vs grado 3-4 vs nessuna tossicità).
Allo scopo di gestire (o - per meglio dire - nell'intenzione di ridurre) l’immortal time bias, gli autori hanno realizzato, sia per la sopravvivenza libera da progressione che per la sopravvivenza globale, anche una analisi landmark, includendo i soli pazienti che fossero senza progressione oppure fossero vivi 9 settimane dopo l’inizio del trattamento.
Sono stati inclusi nell’analisi 150 pazienti.
Di questi, 32 (pari al 21.3%) hanno sviluppato eventi avversi immuno-relati, di qualsiasi severità. Il tempo mediano all’insorgenza dell’evento avverso rispetto all’inizio del trattamento è risultato pari a 111 giorni, quindi quasi 4 mesi. Nella maggior parte dei casi, si trattava di eventi avversi endocrinologici o dermatologici. Nove pazienti, pari al 6.0%, hanno sviluppato eventi avversi severi (di grado 3 o di grado 4).
La sopravvivenza libera da progressione mediana è stata pari a 273 giorni nel gruppo di pazienti nei quali si erano verificati eventi avversi e 189 giorni nel gruppo di pazienti nei quali non si erano verificati (p=0.055).
La sopravvivenza globale mediana non è stata raggiunta nel gruppo di pazienti nei quali si erano verificati eventi avversi, e pari a 458 giorni nel gruppo di pazienti nei quali non si erano verificati (p=0.036).
Considerando gli eventi avversi di grado 1 e 2, la loro insorgenza è risultata significativamente associata a una più lunga sopravvivenza libera da progressione (p=0.014) e una più lunga sopravvivenza globale (p=0.003), rispetto ai pazienti senza eventi avversi e a quelli con eventi avversi severi.
All’analisi multivariata, l’insorgenza di eventi avversi di grado 1 e 2 è risultata significativamente associata a un miglior outcome (rispetto a chi non aveva avuto tossicità o aveva avuto un evento avverso severo), sia in termini di sopravvivenza libera da progressione (hazard ratio 0.339; intervallo di confidenza al 95% 0.166 - 0.691; p=0.003) sia in termini di sopravvivenza globale (hazard ratio 0.086; intervallo di confidenza al 95% 0.012 - 0.641; p=0.017).
L’analisi landmark ha prodotto risultati simili.
Sulla base dei risultati sopra sintetizzati, gli autori concludono che, in una popolazione di pazienti affetti da epatocarcinoma avanzato trattati nel real world con la combinazione di atezolizumab e bevacizumab, l’insorgenza di eventi avversi immuno-relati di grado lieve 1 -2 è risultata fortemente associata a un miglior outcome, sia in termini di sopravvivenza libera da progressione che di sopravvivenza globale.
Lo studio giapponese ha numerosi limiti. Si tratta di uno studio retrospettivo, e soprattutto l’analisi non è priva di bias legati alla natura tempo-dipendente dell’insorgenza degli eventi avversi. La conduzione dell’analisi landmark (escludendo i fallimenti avvenuti nelle prime 9 settimane) non corregge completamente questo bias, perché gli eventi avversi possono capitare anche tardivamente, e chiaramente la chance che si verifichi un evento avverso è maggiore nei pazienti esposti per lungo tempo al trattamento.
Se ci si limita a confrontare la sopravvivenza di chi non ha avuto tossicità durante il trattamento con la sopravvivenza di chi ha avuto tossicità in qualunque momento (incluse le tossicità tardive), il confronto è inevitabilmente distorto dal fatto che chi è stato esposto più a lungo ha ovviamente una sopravvivenza migliore di chi è stato esposto meno al trattamento.
E’ un dato di fatto che in oncologia ci sia grande interesse a esplorare la relazione tra tossicità ed efficacia, anche perché capita spesso di discutere l’argomento con i pazienti. Le analisi del lavoro giapponese suggeriscono che abbia prognosi migliore chi ha tossicità, purché non sia severa: è un messaggio con implicazioni per certi aspetti scontate, per altri potenzialmente sbagliate.
Chi ha una tossicità spesso chiede se si tratti di un segno “buono”, di un segno di attività ed efficacia. Chi non ha alcun fastidio dal trattamento può essere, al contrario, preoccupato che lo stesso non stia funzionando. D’altra parte, si tratta di analisi molto difficili da condurre, e purtroppo ci sembra che il lavoro giapponese non lo faccia con grande qualità, alla pari di molti precedenti lavori che, seppure con altri farmaci e in altri setting, hanno affrontato la questione.