Alfa-fetoproteina (AFP) è un marcatore sierico di grande importanza nell’HCC, con valore prognostico e predittivo di risposta a varie strategie terapeutiche. Lo studio descrive l’outcome di pazienti con HCC trattati con cabozantinib in dipendenza del valore basale di AFP e della risposta biochimica.
Kelley RK, Meyer T, Rimassa L, et al. Serum Alpha-fetoprotein Levels and Clinical Outcomes in the Phase III CELESTIAL Study of Cabozantinib versus Placebo in Patients with Advanced Hepatocellular Carcinoma [published online ahead of print, 2020 Jul 7]. Clin Cancer Res. 2020;10.1158/1078-0432.CCR-19-3884
E’ noto da molti anni l’importanza della determinazione e del monitoraggio di AFP nella fase diagnostica e terapeutica di pazienti con epatocarcinoma. In condizioni fisiologiche, questo biomarcatore sierico è una glicoproteina prodotta nel feto dal fegato, dal sacco vitellino e dall'epitelio intestinale, dove rappresenta la proteina più abbondante con caratteristiche molto simili all’albumina per peso molecolare, sequenza aminoacidica, caratteristiche immunologiche e funzioni organiche. Dopo la nascita, la sua concentrazione
plasmatica si azzera e nell’adulto mantiene concentrazioni estremamente basse. In alcune condizioni patologiche oncologiche (carcinomi epatocellulari ed altri carcinomi intestinali, tumori del testicolo, tumori ovarici, teratocarcinoma, o neoplasie della mammella) ne è ripresa la produzione da parte delle cellule tumorali.
Nell’epatocarcinoma, il dosaggio della proteina ricveste un particolare importanza sia nella fase diagnostica che in quella terapeutica. La sua concentrazione plasmatica correla con l’estensione della neoplasia, con lo
stadio e con l’outcome globale; il livello pretrattamento correla con la chance di ricaduta dopo chirurgia radicale, trapianto di fegato o trattamento locoregionale (nelle rispettive indicazioni secondo la stadiazione BCLC); il dosaggio baseline con la PFS e la sopravvivenza overall dei pazienti candidati terapia medica in prima o seconda linea. Sebbene non vi sia concordanza sul livello di diminuzione qualificabile come risposta biochimica (-20% vs -50%) è indubbio che la profondità della sua riduzione correla con la chance di beneficio dal trattamento e, spesso, con una maggiore sopravvivenza overall.
Studi preclinici hanno anche suggerito una correlazione tra il livello di AFP e lo stato angiogenico dell’HCC (in particolare con l’espressione di VEGF e VEGFR). Nel trial randomizzato REACH-2 la terapia di seconda linea con ramucirumab (un anticorpo monoclonale diretto contro VEGFR2) si è dimostrata efficace vs
placebo in pazienti con HCC ed espressione basale di AFP superiore a 400 ng/mL.
Il trial CELESTIAL, pubblicato circa due anni fa (Abou-Alfa GK, et al. Cabozantinib in patients with advanced and progressing hepatocellular carcinoma. N Engl J Med 2018, epub July 5. vedi https://www.oncotwitting.it/patologia-gastrointestinale/item/845-cabozantinib-nuovo-farmaco-per-l- epatocarcinoma-un-risultato-celestiale) ha studiato il ruolo di cabozantinib in pazienti pretrattati.
In questa analisi gli autori indagavano l’effetto del farmaco in dipendenza del valore basale di AFP e del suo andamento temporale, misurato ogni 8 settimane. La definizione di risposta biochimica corrispondeva a
una riduzione di almeno il 20%, ma è in ogni caso stata analizzata anche la soglia di riduzione pari al almeno il 50%. Sono state analizzate e comparate le caratteristiche baseline dei pazienti nei due sottogruppi basali con test Chi quadrato o ANOVA. Sono state condotte analisi multivariate per verificare se la risposta biochimica correlasse alla sopravvivenza nei pazienti randomizzati al trattamento con cabozantinib e un metodo di maximally selected rank statistics per valutare quale fosse la riduzione ottimale di AFP alla settimana 8 a correlare con l’outcome.
I risultati complessivi dello studio sono già stati riportati: la sopravivenza overall mediana nel braccio con cabozantinib era di circa 2 mesi più lunga di quella registrata nel braccio con placebo (10.2 mesi vs 8 mesi, HR 0.76, 95%CI 0.63-0.92, p = 0.005). In linea con il vantaggio di PFS si nota anche un raddoppiamento della PFS mediana (5.2 mesi vs 1.9 mesi, HR 0.44, 95%CI 0.36-0.52). Seppure vi fosse un incremento del tasso di risposte, in entrambi i bracci le frequenze erano trascurabili (4% vs 1%).
Il beneficio di cabozantinib si manteneva in modo indipendente dal valore basale di AFP e in particolare il vantaggio rispetto al placebo era di 3.6 mesi per pazienti con valore basale di AFP inferiore a 400 (13.9 mesi vs 10.3 mesi, HR 0.81) e di 3.3 mesi per pazienti con valore basale di AFP superiore a 400 (8.5 mesi vs 5.2 mesi, HR 0.71).
La risposta alla settimana 8 si censiva nel 13% dei pazienti assegnati al placebo vs 50% di quelli assegnati al trattamento attivo.
Nel braccio di trattamento con cabozantinib, la sopravvivenza mediana era di 16.1 mesi vs 9.1 mesi in caso di risposta/non risposta biochimica (HR 0.61, 95%CI 0.45-0.84). Il cut off ottimale per la correlazione tra il decremento di AFP e l’outcome era qualsiasi decremento, indipendentemente dalla sua profondità.
Lo studio conferma il valore prognostico di AFP e rinforza il messaggio del valore clinico della riposta biochimica.
Infatti, una risposta biochimica a cabozantinib, indipendente dalla sua entità, risultava associata ad un più favorevole outcome in termini di PFS e di sopravvivenza overall: in caso di calo del marcatore documentato alla settimana 8 di trattamento la sopravvivenza mediana raddoppia rispetto a quella di pazienti con malattia senza documentata risposta biochimica. Un buon messaggio da portare ai pazienti, anche per motivarli a proseguire la cura con fiducia.